Parliamo del Regno Unito, non di uno Stato dell’Africa nera, né di uno Stato “vergognosamente pro life” come Polonia o Irlanda: in UK l’aborto è legale, a richiesta, fino a 24 settimane (e oltre).
Eppure l’aborto legale miete vittime: uno tra i maggiori fornitori di aborto nel Regno Unito ha mandato almeno 11 donne in ospedale.
Parliamo del British Pregnancy Advisory Service (BPAS).
La Care Quality Commission inglese ha evidenziato una lunga lista di violazioni alle regole della sicurezza, comprese le procedure di controllo delle infezioni, attrezzature inefficienti e obsolete, scarsa attenzione alle pazienti cui sono stati arrecati danni evitabili, e scarsa cura nella denuncia degli incidenti occorsi e nell’indagine su cause e rimedi.
Il Servizio Sanitario Nazionale inglese (NHS) aveva rilevato 16 gravi incidenti relativi a complicazioni dopo l’aborto, tra gennaio 2013 e febbraio 2016. 11 donne sono state ricoverate d’urgenza dopo aver subito gravi lesioni tra gennaio 2013 e marzo 2016. Di queste, otto casi si sono verificati negli ultimi 15 mesi.
Questo dimostra una intrinseca mancanza di cura per la salute delle donne, che è endemica, comune, all’industria dell’aborto. Non solo nelle cliniche Planned Parenthood, quindi.
Né si può dir meglio del più grande fornitore di aborto anglosassone, Marie Stopes International, che è stato indagato per mancata formazione professionale del personale sanitario e violazione delle norme sul consenso informato.
Ma le donne possono fidarsi di questi enti, che sbandierano d’aver a cuore la salute sessuale femminile e poi si comportano in questo modo?
E’ incredibile, poi, che dopo tutte queste denunce le cliniche siano ancora autorizzate a operare. Anche i soldi dei contribuenti inglesi non sono ben spesi. Forse per non ostacolare la BPAS, che è impegnata in una campagna per consentire l’aborto fino alla nascita per qualsiasi ragione (ora è possibile solo se il bambino è “imperfetto”)?
Redazione
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