Randall O’Bannon è un medico che dirige la sezione ricerca ed educazione del National Right to Life Committee. Ha scritto un post illuminante che spiega come vengono costruite le fake news sull’aborto, prendendo spunto da un recente studio pubblicato dall’Università di San Francisco.
Nel leggere il suo post abbiamo trovato tante analogie tra il modo di presentare i dati di questo studio (dati americani) e il modo in cui le nostre Relazioni ministeriali presentano i dati sulle conseguenze dell’aborto per la salute delle donne.
Il risultato finale è anch’esso analogo: si dissimula la realtà, si omettono verità e – alla fine – la base per la fake news è servita. Poi toccherà ai media iniziarne la propaganda.
Abbiamo tradotto e riportiamo ampi stralci del post del dottor O’Bannon per i nostri Lettori. Chi sa l’inglese o vuole leggere il pezzo integralmente può vedere per esempio LifeNews.
Chiediamo infine a tutti i nostri Lettori un ultimo sforzo: abbiamo già raccolto moltissime firme per la salute delle donne: presto partirà un’interrogazione parlamentare e le presenteremo al Ministro della salute... Per favore, se non lo avete ancora fatto, firmate la petizione per chiedere al Ministro della salute che le donne siano informate in modo veritiero e completo sulle possibili conseguenze dell’aborto. Aiutateci diffondendola tra i vostri contatti.
Redazione
È stato pubblicato un nuovo studio dell’ Ucsf, Università della California – San Francisco, a volte chiamata America’s Abortion Academy, che afferma che l’aborto è una pratica sicura per la salute delle donne, considerando il numero relativamente basso di coloro che si recano al pronto soccorso dopo l’aborto.
Per coloro che comprendono come funziona l’industria dell’aborto e come si svolge la realtà dell’aborto sul campo, la conclusione risulta molto poco credibile.
La donna o il medico mentono sulle cause delle complicazioni post aborto
Infatti, sappiamo bene che la donna che si presenta al pronto soccorso poche volte rivela di aver avuto un aborto volontario. E anche quando lo fa, il medico comunque registra l’intervento sotto altra voce: i risultati dello studio sono quindi falsati.
Del resto coloro che promuovono e praticano l’aborto, in particolare l’aborto con RU486, consigliano esplicitamente alle donne di non parlare di aborto indotto, ma di sostenere che hanno avuto un aborto spontaneo [si veda ad esempio Women on Web, di cui abbiamo parlato anche qui. O’Bannon poi segnala anche il sito Early abortion.com. E se guardate in giro sul web, anche nei siti (italiani, ispanici...) dedicati, è pieno di donne che chiedono: «Come posso provocare un aborto spontaneo?» senza neanche rendersi conto della contraddizione in termini, forse].
Quindi, molte volte se la donna ha problemi seri, o addirittura muore, si dà la colpa all’aborto spontaneo e l’aborto indotto, nelle statistiche, resta una procedura “sicura”.
La classificazione delle conseguenze dell’aborto (“incidenti gravi”, “minori”, o “non incidenti”) è fuorviante
Inoltre, come vedremo, le conseguenze gravi sono classificate in modo fuorviante.
Il gruppo di ricerca guidato da Ushma D. Upadhyay ha esaminato i campioni tratti da un database nazionale di visite di donne ai pronto soccorso dal 2009 al 2013. Hanno trovato 6,239 casi.
Proiettati sulla popolazione nel suo insieme, i ricercatori hanno concluso che sono 27,941 le visite al pronto soccorso in qualche modo collegate all’aborto. Di cui 5.673 sono state dovute a “incidenti gravi”, e oltre 22.000 a incidenti che sono stati considerati “minori” o “indeterminabili” o “non incidenti”.
Sono considerati “incidenti gravi” quelli che richiedevano una degenza ospedaliera di almeno una notte, una trasfusione di sangue o un intervento chirurgico. Gli “incidenti minori” includevano tutti gli altri, compresi i casi in cui l’aborto è stato incompleto e si è dovuto procedere all’aspirazione e al raschiamento dell’utero che (secondo le definizioni degli autori) non è considerato “intervento chirurgico”. Tutti gli interventi collegati a una condizione preesistente all’aborto (ad esempio, pressione alta, diabete, obesità) sono stati classificati come “non incidenti”.
Con questi criteri un enorme numero di complicazioni piuttosto comuni non viene considerato come “gravi” complicazioni.
Per esempio, una donna arriva con persistente vomito e diarrea, tanto da necessitare una flebo per ripristinare la normale idratazione. Ma se torna a casa prima di sera, non viene contata.
Altro esempio: se l’aborto non è completo (o per la RU486, o perché parte del bambino è sfuggita all’aspirazione e all’ecografia di controllo), il medico esegue una nuova aspirazione e un raschiamento, ma non conta.
Oppure, la donna presenta dolori tali da aver bisogno di antidolorifici oppiacei ad alta potenza, ma non è una complicazione, se va a casa.
I ricercatori hanno conteggiato non solo i casi di aborto volontario legale e non hanno tenuto conto né delle gravidanze ectopiche né degli aborti spontanei
Ma la cosa che maggiormente falsa le conclusioni dello studio è il fatto che Upadhyay e colleghi, pur avendo detto che hanno selezionato solo quei record con un codice di diagnosi ICD-9 (che indica l’aborto volontario e legale), poi nello specifico hanno menzionato non solo il codice che indica l’aborto legale (635), ma anche l’aborto illegale (636), l’aborto che non è specificato se legale o meno (637) e il tentativo fallito di abortire (638). Invece non hanno contato i casi di gravidanza extrauterina (633), i cui sintomi sono gli stessi dell’aborto con Ru 486, e l’aborto spontaneo (634) che, come abbiamo detto, viene dichiarato tale quando è causato invece dalle pillole.
Così la fake news sull’aborto sicuro è servita
Tuttavia, considerando i 5.673 casi identificati come “gravi incidenti”, rapportati ai 5.282.500 aborti totali registrati da Guttmacher nei cinque anni in esame, Upadhyay e il suo team hanno riscontrato un’incidenza del 0,11%, cioè 108 “incidenti gravi” ogni 100.000 aborti.
Gli autori concludono quindi che «chi percepisce l’aborto non sicuro non si basa su dati provati» e dichiarano al Los Angeles Times: «Uno studio come questo non fa che aumentare gli abbondanti dati scientifici che dimostrano che l’aborto è sicuro» (15/6/18).
Invece...
A volte neanche la morte delle donne causata dall’aborto viene collegata ad esso, nelle statistiche
Il team di Upadhyay ha ammesso la morte di 15 donne nello studio, ma in qualche modo ha “perso” più di un terzo di quelle segnalate ai Centers for Disease Control degli Stati Uniti. E comunque, anche quando la donna muore, i medici spesso non collegano il decesso all’aborto o alla gravidanza. O perché non lo sapevano, o perché hanno ritenuto di non dover menzionare l’aborto nel certificato di morte (Journal of Contemporary Health Law & Policy, Primavera 2004 su ).
Infatti, i medici di pronto intervento, spesso molto impegnati, possono sottovalutare la questione, o possono accondiscendere alla richiesta della donna di non registrare l’aborto (Rachel Jones e Katryn Kost hanno scoperto che circa la metà delle donne che abortiscono ammette di averlo fatto: questo risulta dalle interviste fatte nel 2002, per gli aborti avuti tra il 1997 e il 2001, dal National Survey of Family Growth), o addirittura vogliono evitare guai ai colleghi abortisti: così un’emorragia viene registrata semplicemente come emorragia, un’infezione come infezione, indipendentemente dal fatto che sia stata provocata da un aborto.
E si noti che le donne che sono andate a farsi curare le complicazioni nella stessa clinica dove hanno abortito – e non al pronto soccorso – sono anch’esse non registrate dallo studio dell’UCSF.
L’industria dell’aborto ha sempre cercato di occultare i suoi errori
Infine, è bene ricordare che il Chicago Tribune del 16 giugno 2011 ha pubblicato un’indagine da cui risultava che l’obbligo di segnalare allo Stato aborti e complicazioni da essi derivanti veniva spesso ignorato. Più recentemente, nel maggio del 2017, il direttore del Dipartimento della salute e dei servizi del Missouri, Randall Williams, ha dichiarato che gli abortisti non rispettano la legge statale che impone loro di denunciare ogni complicazione derivante dall’aborto da loro diagnosticata o curata, entro 45 giorni.
Randall O’Bannon
(traduzione con adattamenti non rivista dall’Autore)
Fonte: LifeNews