La generosità di alcune famiglie non ha confini. Nella loro casa-famiglia, in ventiquattro anni di matrimonio, Luca e Laura Russo hanno adottato o preso in affido un gran numero di bambini, alcuni dei quali con gravi disabilità. Membri della Comunità Papa Giovanni XXIII, i coniugi Russo vivono ad Assisi, con gli anziani genitori di lui, con due figlie naturali ventenni e con una decina di altri bambini e ragazzi. Autore del libro Quanta bellezza. Elogio dei corpi fragili e cultura della cura (Sempre editore, 2021), Luca Russo ha raccontato a Pro Vita & Famiglia cos’è che ha spinto lui e sua moglie a questo tipo di vita e cos’è, a suo avviso, che dona dignità anche alle vite più fragili.
Luca Russo, com’è nata in Lei e in sua moglie, questa vocazione all’accoglienza dei più fragili?
«Io e Laura ci siamo conosciuti nell’ambito della Comunità Papa Giovanni XXIII, nella quale ci siamo trovati a vivere le stesse esperienze, che nascevano da un comune desiderio, quello di dare un senso profondo alla nostra esistenza. Ho sempre avuto contezza del fatto che una persona esiste se appartiene ad una comunità. Il noi viene prima dell’io: è un pensiero che mi porto con me e che è molto chiaro. Questa riflessione, però, l’ho riportata non solo su me stesso ma sulle persone più deboli che erano ai margini dell’esistenza. È come se il nostro matrimonio, al suo interno, abbia fatto spazio a dei bambini che volevano aggrapparsi alla nostra promessa, cercavano quell’eternità, quella stabilità, quella vitalità che viene dal nostro sì. Chi ha voluto chiamarci mamma e papà, pur non essendo figlio biologico, nel darci quegli appellativi, è come se avesse ritrovato quelle radici che aveva perso».
Attualmente di quante persone è composta la vostra famiglia?
«Al momento, in casa siamo quindici. Di bambini ce ne sono due. Normalmente, nelle case-famiglia, a diciotto anni bisogna lasciare la struttura. Quelle della Comunità Papa Giovanni XXIII, però, sono vere famiglie e noi stessi in casa abbiamo anche giovani adulti tra i venti e i trent’anni. Abbiamo un bimbo di quasi quattro anni, in affido familiare da tre: saranno poi i tribunali competenti che decideranno la sua destinazione definitiva. Lui è affetto da una sindrome genetica rara, per cui è stato sottoposto a tracheostomia ma poi, nel tempo è riuscito a recuperare tantissime abilità, grazia alle cure ma anche un contesto familiare positivo, amorevole, sereno che gli ha dato la voglia di crescere. Abbiamo avuto bambini che non riuscivano a muovere le braccia senza il nostro aiuto. Giuseppino ha trascorso i suoi ultimi cinque anni di vita con noi tracheotomizzato, dipendente dall’ossigeno, con crisi epilettiche improvvise: un bambino che non parla, non vede, non comunica, secondo i canoni di oggi, è una vita di cui si può fare a meno. Invece la vita di Giuseppino era riuscita a scuotere i cuori più induriti. È importante ricordarci sempre che un figlio con una malattia degenerativa, prima di avere questa patologia, è un bimbo che chiede di essere tale, di vivere nel miglior modo possibile la vita da bambino, con i suoi giochi e con l’abbraccio di papà e mamma. Dopo che le relazioni dei tribunali e degli assistenti sociali assegnano a noi un bambino, nel momento in cui lui varca la soglia di casa nostra, è già nostro figlio. Nostro compito è quello di reintegrare quel figlio nella comunità».
Tra i vostri figli adottivi, c’è Agnese, una bambina di nove anni, con una gravissima disabilità: di che si tratta?
«Agnese soffre di una microcefalia congenita. Non ha il cervelletto e ha delle parti dell’emicefalo un po’ atrofizzate. Quindi, si trova in uno stato di assoluta dipendenza dall’altro. Non vede, non mangia ma viene alimentata tramite la PEG. Non piange, quindi riesce a relazionarsi solo attraverso la musica, le parole, il contatto, la relazione amorevole. È stata adottata a un mese e mezzo di vita. Anche Agnese ha qualcosa da dire alla società. La sua vita, nonostante la gravità della sua condizione, ha qualcosa da raccontare, un orizzonte da indicare a chi le si avvicina. Anche le persone con una disabilità così grave hanno il compito importantissimo di costruttori della società. Il rischio è quello di relazionarsi con loro solo in una forma un po’ pietistica e stucchevole. Invece il modo migliore è quello di condividere la stessa sorte e la stessa storia e riconoscere che anche dove c’è una dipendenza totale, dove c’è una malattia di cui si vorrebbe fare a meno (e per cui ci si potrebbe anche fare accompagnare in Svizzera per mettere fine a quella vita), in realtà, riconosciamo che c’è un senso enorme e una storia che può essere ancora raccontata».
Cosa significa per voi parlare di dignità della vita?
«C’è una vocazione all’umanità, che consiste nel permettere alla propria debolezza di diventare una vera e propria cattedra, un luogo privilegiato per fare accademia. È proprio questa “accademia della fragilità” che permette di tirar fuori la parte migliore di se stessi. Io e mia moglie abbiamo accolto in casa anche giovani che venivano dalla realtà del carcere, ragazze che venivano dalla prostituzione, abbrutite dalla strada e dalla violenza, in qualche caso con mani monche o tatuate. Quelle stesse mani poi diventavano tenerissime di fronte al candore dei nostri figli, che sono riusciti a far emergere quel senso dell’umanità dimenticato da coloro che avevano vissuto storie di violenza, una vita dedicata al sopruso, a volte anche a omicidi e reati efferati».
Ha accennato al tema dell’eutanasia: questa “accademia della fragilità” di cui parlava, può diventare un antidoto alla cultura della morte?
«L’eutanasia è un tema che viene cavalcato secondo principi come, ad esempio, la libertà. Nessuno vuole rinnegare la libertà ma, nel momento in cui la libertà della persona arriva al punto di negare la propria stessa vita, diventa omicida e suicida, quindi non è più libertà. Siamo liberi solo nella misura in cui la libertà ci porta a far crescere la vita, a promuovere l’identità dell’altro».
C’è qualche aneddoto legato ai vostri figli che ha il piacere di raccontarci?
«Ce ne sono tanti. Ricordo quando ci consegnarono Agnese: la definimmo una “bambina col timer”, perché ci avevano detto che due suoi fratellini erano nati con la stessa sindrome cromosomica ed erano morti entrambi all’età di due anni e mezzo. La dottoressa ci disse: “Preparatevi, perché la genetica non sbaglia mai”. Agnese era destinata a vivere anche lei due anni e mezzo, massimo tre, invece quest’anno ne ha compiuti nove. Non è per dire che siamo stati bravi ma, quando ci prepariamo a relazioni familiari significative in cui ci si prende cure l’uno dell’altro, l’amore reciproco e la prossimità riescono a smentire la scienza. Un altro bambino, Michele, ha vissuto quattro anni con noi. Aveva una tetraparesi spastica e distonica. Un’improvvisa polmonite se l’è portato in Cielo. Nei primi dieci giorni, non riuscivamo a decifrare il suo linguaggio, fatto di soli suoni gutturali. Un giorno abbiamo portato tutta la famiglia al parco giochi vicino casa. A un certo punto mia moglie mi ha preso in disparte e mi ha fatto notare: “Guarda, Luca, c’è Michele con una lacrima sul volto”. Gli domandammo: “Michi, cos’hai, perché piangi?”. Poi mia moglie disse: “Ho capito, Michelino vuole andare sull’altalena”. In quel momento il bambino, con tutte le sue distonie muscolari, esplose di gioia. Sua mamma aveva compreso il suo desiderio: prima ancora che un bambino disabile, era un bambino che, come tutti, desiderava andare sull’altalena».