Proponiamo ai lettori un’indagine filosofica sulle radici del gender.
Un’ideologia che ha origini culturali vicine e lontane, ma nessuna le consente di mantenere ciò che promette: il caso della Scuola di Francoforte.
«Timeo Danaos et dona ferentes» (Eneide II, 49)
PRIMA PARTE
I nemici dell’uomo sono molti, e molto astuti. Spesso mentono platealmente, più spesso dissimulano, quasi sempre promettono doni allettanti, graditi agli occhi e desiderabili per acquistare saggezza (Genesi I, 3). Anche oggi, come sempre, si pone con urgenza il compito di individuare quali siano questi nemici e fronteggiare adeguatamente chi attenta l’uomo. Gli avvelenatori dell’uomo si ripresentano sotto mentite spoglie: promettono la liberazione da ogni forma di oppressione, la piena realizzazione per ciascun individuo, il benessere e la felicità per tutti.
Essi sono molto abili nell’utilizzo del linguaggio: si tratta dei nuovi Sofisti, che inventano neologismi sconnessi dalla realtà, contro ogni principio di evidenza naturale: oppure cambiano di volta in volta le carte in tavola mescolando per esempio il “distinguere” con l’“emarginare”, con disinvoltura e come se niente fosse pretendono di abolire il diritto naturale del bambino di avere il proprio padre e la propria madre per affermare che è invece diritto degli adulti rendere volontariamente orfano un essere umano, per il solo fine di assecondare le proprie brame. E così via: l’elenco delle declinazioni è lungo, conosciuto, e drammatico.
Più in generale, i moderni sofisti, dopo aver acriticamente rigettato ogni diritto naturale, sanno confondere a meraviglia il diritto intersoggettivo con la pretesa soggettivistica di soddisfacimento di ogni desiderio, anche a scapito degli altri, facendo passare una serie di discutibili ricerche come una solidissima ed indiscutibile verità scientifica, e così via. Ne abbiamo già parlato: si tratta della ormai arcinota bufala dei trent’anni di studi.
Sotto la spinta di un distorto concetto di democrazia, siamo tutti oggi portati ad accettare passivamente il programma globale di eliminazione delle differenze, che, ci viene ossessivamente ripetuto, è strettamente legato al concetto di uguaglianza. Quello che è importante, urgente, vitale per la sopravvivenza della società, sembra essere il solo decostruire, lo smantellare, l’abbandonare ogni residuo morale per abbandonarsi ciecamente ad un mondo nuovo, dominato dal pansessualismo e dalla perdita dell’identità, in cui l’io è finalmente padrone di sé e del suo egoistico destino.
Ciascun io, s’intende, a modo suo: come gli va. Quando gli va. Per quel tanto che gli va. E guai a chi ha da ridire qualcosa sugli effetti di questa nuova (antica, in realtà) filosofia. Per alcuni è così chiarissimo per quali ragioni l’aborto, l’eutanasia, la destrutturazione della famiglia, l’esaltazione dell’omosessualità, del transgendersimo, etc. e l’accordo ai matrimoni e alle adozioni in coppie dello stesso sesso siano da considerare come frutto di un’unica perversa ideologia. Ivi compresa la progressiva patologizzazione della normalità e parallela normalizzazione di ogni devianza.
Ideologia, dicevo, che nasce da una malattia dell’anima antichissima, direi originaria: l’uomo da creatura finita pretende di porsi come Dio. Vuole creare, liberamente, prima di tutto se stesso, la propria vita, i propri valori. Per questo, come abbiamo visto nel caso emblematico di Friedrich Nietzsche, la modernità deve sovvertire tutti i valori, destrutturate tutte le istituzioni, manipolare, costringere, stravolgere, negare la vita, a tutti i suoi livelli, per poterne infine rivendicare un pieno possesso.
Ora, se nella storia del pensiero occidentale i falsi profeti non si contano più da un pezzo, è anche vero che possiamo ricordarne almeno gli esponenti più significativi (nel senso qui di distruttivi).
Così, dopo aver ricordato Protagora, Nietzsche, il Decostruzionismo francese (giusto per fare qualche nome), questa volta ricordiamo che tra i padri della deriva relativista e nichilista che l’Occidente ha imboccato ci sono anche i neomarxisti della Scuola di Francoforte.
A partire dagli anni venti del secolo scorso la Scuola di Francoforte, con i suoi esponenti di spicco (Max Horkheimer, Theodor Adorno [nella foto a lato], Herbert Marcuse[nella foto sopra]), aveva sostenuto la necessità di evidenziare le contraddizioni della società occidentale, ponendosi il compito di portare alla nascita di un nuovo mondo, finalmente libero e giusto. O meglio: liberato e giustificato, come vedremo più avanti. Nelle loro analisi filosofiche, i francofortesi intendevano prendere in esame non solo la struttura economica (come il marxismo classico aveva indicato), ma anche e soprattutto le strutture ideologiche e culturali, allo scopo di mostrare che il dominio sull’uomo moderno e lo schiacciamento della sua libera realizzazione ha radici storiche e sociali, non naturali, e può quindi essere anch’esso decostruito.
Al centro della riflessione della Scuola di Francoforte si pone lo studio dei processi sociali in chiave sociologica, economica, ma soprattutto (è questa la novità) psicoanalitica. Vengono così analizzati e ricostruiti i processi profondi che determinano le condotte individuali e collettive della società. Il tutto, nel quadro di una teoria critica che si pone come scopo l’attacco ai ruoli sociali e ad ogni forma di autorità. In questo senso è emblematico uno dei primi lavori collettivi, del 1936, intitolato appunto “Studi sull’autorità e la famiglia”, dove i processi inconsci degli individui vengono rapportati alle istituzioni e ai ruoli sociali che vengono percepiti come limitativi, autoritari, dei quali la famiglia è in qualche modo il simbolo rappresentativo. Lo sviluppo di ruoli sociali di tipo autoritario, a partire dalla famiglia, e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, avrebbero prodotto delle peculiari forme di dominio che vengono via via interiorizzate inconsciamente dagli individui e dalla società intera, dalle quali occorre liberarsi.
A mio parere è possibile individuare in questa critica, sia pure se in forma embrionale, la genesi del concetto di “stereotipo”, che tanta fortuna sta riscuotendo nei nostri tempi, proprio sulla scorta dei gender studies che sulla nozione di stereotipo trovano appunto il loro fondamento. Gli stereotipi di genere costituiscono d’altro canto il nocciolo di numerosi programmi educativi (o ri-educativi) che mirano a mostrare da una parte come “non esista alcuna teoria del genere”, cercando dunque di minimizzare le critiche, mentre dall’altra si instillano congegni d’analisi (preconfezionate) per inquadrare (non per comprendere, si badi bene) le relazioni tra sessi situate in precisi ambiti storici e sociali: tutto questo basandosi però ancora una volta più o meno direttamente sui gender studies e cercando di convincere all’idea che non ci siano modi predefiniti e prescrittivi di essere uomini o donne, mentre l’espressione della propria sessualità risponderebbe ad identità molteplici ed ugualmente legittime.
Così in sostanza i gender studies portano ad una considerazione negativa dei cosiddetti stereotipi sessuali e sotto la copertura della lotta contro i pregiudizi inducono a credere che mascolinità e femminilità siano frutto dei condizionamenti storico-culturali ricevuti (interessanti a questo proposito le osservazioni di Giuliano Guzzo ed Enzo Pennetta: davvero non si può parlare di “teoria” gender?)
E’ questo un punto di nodale importanza, che si ricollega all’ottica dei francofortesi, secondo i quali la famiglia è il centro originario da cui si materializzano tutte le figure di potere che schiacciano la libertà degli individui, limitandone gli istinti e reprimendone i desideri. Tant’è vero che – come tutti possiamo constatare – sulla scorta della lotta agli stereotipi sessuali, oggi da più parti si cerca di legittimare un concetto pluriforme di famiglia, in base al quale si avrebbero tante famiglie legittime e socialmente condivisibili quante sono le configurazioni possibili: non solo uomo e donna ma, proprio in virtù dello slogan “no differences”, due uomini, due donne, tre uomini o forse anche diciotto, come suggeriva Giuseppina La Delfa.
Alessandro Benigni