La nostra società edonistica e disumana considera sempre di più i disabili come “corpi estranei” da eliminare
Il British Medical Journal di settembre riporta il caso di una famiglia inglese che denuncia l’ospedale per aver dato l’ordine di non rianimare (“Do not resuscitate”) un paziente in caso di arresto cardiaco, perché il paziente era affetto da sindrome di Down.
Questa vicenda andrà approfondita nelle sedi opportune; a noi interessa per riprendere un dato di fatto: comunque il disabile, e la persona con sindrome Down in particolare, vengono discriminati e considerati esseri inferiori dalla società.
Infatti, se si considerassero realmente le cose, ci si renderebbe conto che neanche è del tutto corretto considerare il disabile come qualcuno da “integrare”, perché è proprio l’uso di questo verbo che non torna. Non perché non ci sia tanto da fare in questo ambito, ma perché presuppone un “noi” e un “loro” che già identifica una barriera; certo, la barriera si deve far saltar via, ma “integrare” presuppone un “passaggio di stato”, che non ha ragione di esistere (siamo tutti esseri umani e siamo tutti in qualche maniera bisognosi l’uno degli altri), e non considera che tutti siamo una risorsa, anche chi è gravemente malato: non è umano un mondo diviso in “chi dà” e “chi riceve”.
Basta pensare allo spettacolo delle paralimpiadi, lo sport per disabili che quest’anno ha visto un paradosso: un boom di spettatori acclamanti (oltre due milioni e mezzo) e il solito silenzio sui mass-media. Eppure chi ha visto le gare, dopo un momento di smarrimento, non si sentiva di fronte ad uno show di riabilitazione fisica o di diversità ostentata, ma di vera eccellenza sportiva da far impallidire i noti e super pagati atleti da rivista patinata e da fidanzate-veline.
Lo sguardo verso il disabile è metro per giudicare la civiltà di un popolo. E in questo tempo di tagli economici, in cui chi ne fa le spese è chi sta male, non troviamo un indice di civiltà. Ma lo sguardo verso il disabile è anche lo sguardo che abbiamo verso di noi; perché la vita si affronta sempre percependone la promessa di bellezza e giustizia, ma poi bisogna scegliere tra la resa alle difficoltà che offuscano questa promessa o la certezza che questa promessa è davvero per tutti, nonostante le difficoltà stesse.
Eppure sono in continua proliferazione i test prenatali per identificare i soggetti con sindrome Down; certo non tutti li faranno pensando ai risvolti abortivi, ma purtroppo dalla diagnosi di disabilità all’aborto il passo è spesso breve, stando ai dati.
La percezione che il soggetto con sindrome Down sia considerato quasi come un corpo estraneo nella società si fa pressante e porta a considerare come “diversi” coloro che non abortiscono il figlio malato. Il fatto è che nella società dove tutto fa notizia, i disabili non hanno voce.
Sembra impossibile, eppure basta valutare quale percentuale di presenza abbia sulla stampa la disabilità rispetto a qualunque altro argomento. Se i disabili avessero voce pubblica e la loro voce non fosse artatamente mischiata a pietismo o voyeurismo – guardate un po’ la TV e dite se non è vero – racconterebbero storie stupefacenti per il dolore, per la forza d’animo, per l’insufficienza degli interventi statali.
Lasciamo che le storie dei disabili siano raccontate, e facciamole raccontare a chi sa farlo con garbo, ma anche con passione forza e impeto, per far conoscere le loro vite sconosciute e nascoste, le catacombe del terzo millennio. Ne vedremmo delle belle.
di Carlo Bellieni