Finalmente qualcosa di concreto per le famiglie. Stiamo parlando dell’assegno unico, attesa misura che, dal primo di luglio, andrà a beneficio di ben due milioni di famiglie italiane. In un primo momento, sarà una sorta di misura «ponte» in vigore per un semestre ma poi, con la riforma fiscale del 2022, essa diventerà strutturale ed universale. Secondo quanto chiarito nel comunicato stampa del Consiglio dei ministri, tale novità darà un beneficio medio, nel 2021, di 1.056 euro per nucleo e 674 euro per figlio. Comprensibili parole di soddisfazione, davanti a questa rilevante notizia, sono arrivate dal mondo della politica e non solo.
Gigi De Palo, Presidente del Forum delle Associazioni Familiari, ha per esempio fatto notare che, per quanto migliorabile, trattasi di svolta senza precedenti: «Le famiglie hanno festeggiato nel 2011 come una grande vittoria il miliardo di detrazioni in più, questa volta di miliardi ce ne sono 6. Scegliete voi cosa fare». In effetti, è difficile negare come questa misura un positivo spartiacque, e non solo dal punto di vista economico, dato che pone l’accento sul concetto di famiglia; insomma – come si diceva all’inizio - a poco dagli Stati Generali della Natalità, cui hanno preso parte il premier Mario Draghi e anche Papa Francesco, finalmente qualcosa di concreto per la natalità.
Detto ciò, pur plaudendo con convinzione a tale misura, è bene – non già per bastiancontrarismo, bensì per realismo – non farsi particolari illusioni rispetto al fatto che, con l’assegno unico, l’Italia potrà risolvere efficacemente quello che, per gravità, è senza dubbio il suo primo problema, ovvero l’inverno demografico; e questo, si badi, non perché l’assegno unico non sia una misura valida o perché economicamente potrebbe essere più poderosa, ma per il semplice fatto che la denatalità non è espressione di un disagio finanziario e, pertanto, non è con aiuti materiali che può essere arginata come dovrebbe.
Del resto, fior di esperti – dallo statistico Roberto Volpi al presidente dell’Istat, il demografo Gian Carlo Blangiardo – da anni spiegano che il calo della natalità che ci ha portati alla situazione attuale è iniziato a metà degli anni ’70 e nei decenni successivi del secolo scorso, economicamente assai più dinamici degli ultimi anni. Non solo. Senza scomodare sempre il mitico Dopoguerra - che vide un’Italia disastrata rialzarsi attraverso tassi di fertilità superiori di quelli sotto il fascismo, vigente la tassa sul celibato -, si può evidenziare che chi, da tempo, ha smesso di far figli non è tanto la fascia più povera della popolazione, ma la classe media. Un dato che dovrebbe far pensare.
Ancora, guardare oltre i confini nazionali, c’è l’esempio dei Paesi del Nord Europa, tutti con un welfare d’eccellenza ma con la natalità in calo e, soprattutto, con una curva di figli medi per nucleo ben sotto al cruciale tasso di sostituzione, pari a 2,1 figli per donna. Perfino la Francia, fino a pochi anni fa eccezione positiva del sempre più Vecchio Continente – e comunque Paese con, da una vita, immensi aiuti alle famiglie -, da alcuni anni è sotto quel decisivo 2,1. C’è solo, a ben vedere, una nazione in netta controtendenza da questo punto di vista, ed è l’Ungheria. E questo non perché Viktor Orbán sia fortunato o abbia dei superpoteri, ma perché, oltre a sostanziosi aiuti economici, ha deciso di promuovere un chiaro messaggio pro family, inserendolo perfino nella Costituzione.
C’è di più. Il vero segreto ungherese consiste nell’aumento del tasso di nuzialità, che non ha termini di paragone neppure nei Paesi vicini e culturalmente simili. In effetti, ciò che studiosi anche asiatici hanno compreso, è che il primo motore della natalità si chiama famiglia fondata sul matrimonio e, soprattutto, matrimonio di coppie giovani. Questo è. Tutte le altre misure di ordine materiale, incluso il nostro assegno unico – che, lo si ripete, va salutato con favore -, possono di certo aiutare, dando un po’ di respiro alle famiglie. Ma se pensiamo che prebende più o meno sostanziose abbiano qualcosa a che vedere col contrasto all’inverno demografico siamo e restiamo, ahinoi, decisamente fuori strada.