Da piccolo gli avevano diagnosticato un disturbo pervasivo di sviluppo con il rischio di un ritardo mentale grave, e spettro autistico. Eppure, dopo questa diagnosi che spesso viene letta come nefasta, oggi Alberto Chiavoni è un ragazzo felice e, senza tradire un po’ di emozione, durante la nostra intervista, ci spiega il perché e ci racconta la sua storia.
Alberto, da piccolo hai ricevuto una diagnosi che a volte viene vissuta come infausta, sembrava che la tua vita sarebbe stata segnata per sempre dalla disabilità e poi che è successo?
«Tornare a quegli anni mi fa un po’ male. In realtà, oggi, l’autismo viene visto come una sorta di lebbra, pensiamo alle ultime notizie di cronaca: al gesto estremo della mamma che ha ucciso il suo bambino perché sospettava che fosse autistico. Si parla sì dell’autismo, oggi, ma, a mio parere, non se ne parla nella maniera corretta. Nel mio caso, la diagnosi di cui si accennava, nasce dal fatto che da piccolo io mi muovevo moltissimo, mi dondolavo continuamente anche da fermo e i miei non riuscivano a capire. In più cominciava a scarseggiare in me l’uso della parola. Finché un giorno ho ricevuto quella terribile diagnosi, peraltro, allora, come oggi, non ti parlano subito di autismo, ma di disturbo pervasivo di sviluppo perché ti osservano e comunque si sa che l’autismo, come tutte le cose evolve: può aggravarsi, ma può anche diventare disturbo lieve, quindi non si può mai fare un vero quadro del futuro. Sicuramente posso dire che una delle mie difficoltà maggiori sia stato l’essere accettato, sono stato bullizzato sin da bambino, perché i miei compagni non capivano affatto il mio modo di essere, eppure io volevo semplicemente una vita come tutti gli altri e che, purtroppo, non riuscivo ad avere. Mi è successo, allora, che come per molte altre persone autistiche, ho vissuto il problema dello “stigma” che ti porta a convincerti che effettivamente la tua vita non vale niente».
Si sta andando verso una deriva eugenetica oggi, secondo te?
«Io credo che oggi manchi in generale la sensibilità verso la sofferenza e il valore della sofferenza. Infatti di fronte a situazioni come la mia, non si riesce ancora a capire che persone che hanno vissuto un’esperienza simile a quella mia, probabilmente hanno uno sguardo più acuto perché hanno sperimentato cose che altri non hanno sperimentato. Il problema è che questa società sta andando verso una deriva nichilista, perché oggi la nostra realtà ci dice, ragionando in chiave capitalistica, che occorre investire solo su chi rappresenta un guadagno e finché un domani non trovo qualcun altro migliore di te e che mi frutti più di te e che mi permetta di metterti da parte. Siccome la persona autistica ha sempre possibilità di ricadute, nel mio caso, questo ragionamento freddo e utilitaristico, va a colpire proprio la sua sfera relazionale, in un contesto, come quello della pandemia, in cui già c’è un problema di rapporti interpersonali, dovuto al distanziamento sociale, piuttosto diffuso. Eppure nella storia della Chiesa la diversità, collegata alla disabilità, è sempre stata considerata una ricchezza: ci sono stati santi che hanno offerto questa loro diversità e sono arrivati anche a compiere dei miracoli».
Hai raccontato la tua esperienza in un libro “La storia di un ragazzo”. Ce ne parli?
«Questo libro mi ha regalato la grande soddisfazioni di far capire agli altri che una persona autistica non è lebbrosa, anzi, è una persona che può dare e ricevere, è una persona con cui ci può essere uno scambio alla pari. E’ stata una vetrina importante che mi ha portato, finalmente, a far conoscere il mio mondo. Ora ho ripreso in mano la mia biografia e vi aggiungerò dei pezzi, ad esempio racconto che ho degli allievi con autismo, che sto cercando di creare una didattica inclusiva, ma anche di sensibilizzare il mondo cattolico e il mondo dell’arte su questa tematica, perché i bambini e i ragazzi autistici hanno molto da dare. Dunque sto cercando di sfruttare i miracoli che Dio ha fatto nella mia vita, per far capire che se Lui ha permesso che esistano le persone autistiche, vuol dire che la loro vita ha un valore e un senso e perciò vanno valorizzate».
Ci accenni al seguito della tua biografia?
«Credo che la chiamerò “Chiamatemi signor pendolo”, in riferimento ad alcune stereotipie dell’autismo, come il movimento di continuo dondolamento su sé stessi. In questo nuovo libro ripercorrerò alcune tappe del passato e aggiungerò alcuni episodi e conquiste del presente».