All’approssimarsi della discussione in parlamento sul nuovo Ddl eutanasia, riprende il dibattito pubblico sul tema, e ricominciano a circolare parole ed espressioni tipiche dell’argomento. Aci Stampa ha intervistato in merito don Pablo Requena, docente di bioetica presso la Pontificia Università della Santa Croce e delegato della Santa Sede presso la World Medical Association.
Dopo aver richiamato la distinzione tra l’eutanasia e il (legittimo) rifiuto delle cure, don Requena afferma che «bisogna lavorare perché le condizioni in cui la gente muore siano degne», facendo ricorso, nel suo stesso argomentare, al primo e più frequente luogo comune in materia di eutanasia: il morire con dignità. Cosa implica, però, la “dignità” della morte? “Degno”, in questo senso, vuol dire “conveniente”, “appropriato”. Ora, non è forse la sofferenza insita nella natura umana? Non è dunque il soffrire “appropriato” alla vita dell’uomo, nel senso che le è proprio, che ne fa parte e non può essere diversamente? Certo, il dolore non è “conveniente” alla dimensione interiore dell’essere umano perché non è un “bene”, e il dolore prolungato, specie se intenso, abbatte lo spirito. Tuttavia con questa espressione, nel linguaggio comune, si è diffusa l’idea che la sola condizione di sofferenza sia, per se stessa, causa di privazione della dignità umana, il che è evidentemente falso: chi soffre non è “meno umano” di chi è in salute. Eppure è proprio questa la convinzione della cultura contemporanea.
Giustamente don Requena osserva che «in questo caso non si tratta di imporre la visione della Chiesa, ma di rispondere alla domanda: è un bene per la società, un bene comune della collettività, avere una legge che permette l’eutanasia?». Ci piace perciò ribadire a nostra volta che la visione della Chiesa coincide con la legge naturale universalmente valida che non è “opinione” di nessuno, bensì pura e semplice verità, e pertanto lottare per “imporre” questa legge non è altro che lottare per la giustizia.
Stupisce, tuttavia, la dichiarazione del bioeticista in merito alle Dat. Dice: «Sulle “direttive anticipate” si potrebbe parlare a lungo. In linea di massima non hanno particolari problemi morali, ma l’esperienza che hanno negli Stati Uniti – dove hanno promosso per decenni questa pratica – ci fa vedere come questa pratica sia molto meno utile di quello che ci si aspettava». Sembrerebbe dunque che l’unico inconveniente delle Dat sia l’inutilità. Ci sembra un’affermazione piuttosto grave, soprattutto in assenza di argomentazioni. Senza elencare la sfilza di “problemi morali” che pone la questione, basti pensare anche solo al problema di una volontà non più attuale che potrebbe non corrispondere a quella del momento, eppure ormai definitiva, qualora il paziente non avesse modo di revocarla. Per non parlare del monstrum etico-giuridico della legge 219/17 sulle Dat, che all’art. 1 comma 5 considera “trattamento sanitario” l’alimentazione e l’idratazione artificiali…
Nel momento in cui ci si appresta – per l’ennesima volta – a discutere politicamente dell’introduzione dell’eutanasia in Italia, è forse il caso di fare più attenzione a operare, sui concetti, come fanno i chirurghi sui corpi, secondo l’indovinata analogia del grande Chesterton. «L’uomo che si compiace dicendo: “Non vogliamo teologi che spacchino capelli in quattro”, sarebbe forse d’avviso di aggiungere: “e non vogliamo dei chirurghi che dividano filamenti ancora più sottili”»...
Vincenzo Gubitosi