25/03/2025 di Redazione

Fine Vita. Quattro malati chiedono audizione alla Consulta: «Vogliamo vivere. Difendete questo nostro diritto»

Il 26 marzo la Corte Costituzionale terrà un’udienza sul fine vita nell’ambito del processo“Cappato ter” e, per l’occasione, si potrebbe verificare una prima volta storica, poiché a farsi avanti nel chiedere di intervenire - per essere dunque audite - sono state quattro persone malate che questa volta chiedono l’opposto rispetto a chi è sempre intervenuto per chiedere l’accesso al suicidio assistito: ovvero mantenere le attuali tutele penali proprio contro l’aiuto al suicidio. Pongono dunque un’altra domanda: essere protette nel loro desiderio di vivere.

La richiesta di intervenire

Assistiti dall’avvocato e costituzionalista Mario Esposito e dal penalista Carmelo Leotta, le quattro persone – due di Torino, uno di Milano e una di Palermo – hanno chiesto di intervenire, presentando tale domanda alla Corte con l’obiettivo di tutelare un principio tanto basilare quanto trascurato nel dibattito pubblico: il diritto alla vita delle persone vulnerabili, che si sentirebbero meno protette se la Corte accogliesse la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, sollevata dal Tribunale di Milano. «I nostri assistiti sono convinti che se venisse eliminato il requisito del trattamento di sostegno vitale tra le condizioni per accedere al suicidio assistito, si indebolirebbe quella che la stessa Corte ha definito una ‘cintura di protezione’ attorno ai più fragili», ha spiegato l’avvocato Leotta, intervistato da Tempi.

Il caso alla base del processo

Il processo trae origine dal caso dell’attivista Marco Cappato, indagato per aiuto al suicidio per aver accompagnato in Svizzera due persone malate, note alla stampa come Elena e Romano. Il Tribunale di Milano ha rimesso alla Corte la questione di costituzionalità dell’art. 580, nella parte in cui richiede, tra le altre condizioni, la necessità di un trattamento di sostegno vitaleper accedere al suicidio assistito. Secondo il Gip, tale condizione violerebbe i principi costituzionali di dignità e autodeterminazione. Ma i quattro che hanno chiesto di intervenire, al contrario, vedono in questa limitazione una garanzia fondamentale per la loro sopravvivenza.

«L’eliminazione del requisito del trattamento vitale renderebbe l’accesso al suicidio assistito meno vincolato alla gravità della malattia e più dipendente da una pura scelta soggettiva», ha affermato Leotta. «Così facendo, il rischio è quello di trasformare l’aiuto alla morte in un’opzione generalizzata anche per chi, nei momenti di sconforto, potrebbe essere spinto a rinunciare alla vita».

Una richiesta senza precedenti

Non è la prima volta che dei malati chiedono di partecipare al processo. Ma nel 2024, a essere ammessi erano stati due pazienti favorevoli al suicidio assistito. Ora la novità è che si presentano quattro pazienti contrari, decisi a far sentire la loro voce. Un’iniziativa che, se accolta, rappresenterebbe un precedente storico. «Anche noi abbiamo diritto a essere ascoltati. Se la Corte ha accolto gli interventi di chi voleva morire, ora deve poter accogliere quelli di chi vuole continuare a vivere – ha aggiunto Leotta –. Il contraddittorio non danneggia il processo, lo arricchisce. E quando si parla di diritti fondamentali, come quello alla vita, il processo deve essere davvero la casa di tutti».

Eliminare la sofferenza, non il sofferente

Il nodo centrale è proprio questo: la vita non è solo, ovviamente, un diritto personale, ma un bene da tutelare per l’intera collettività, specie per i più deboli. I quattro malati – già provati da gravi patologie e da momenti di sofferenza estrema – temono che una pronuncia favorevole alla liberalizzazione del suicidio assistito possa lasciarli ancora più soli di fronte alla tentazione della morte, senza più argini legali e culturali a difesa della loro dignità. «Se viene meno il requisito del trattamento vitale, la scelta tra vivere e morire sarà lasciata soltanto alla nostra volontà, svincolata dalla gravità clinica. Ma in certi momenti, quando si è più fragili, anche la sola possibilità della morte può diventare una pressione insostenibile», ha concluso Leotta. Una pressione che andrebbe dunque tolta dalle opzioni di chi soffre, cercando - per quanto possibile, ovviamente - di eliminare la sofferenza e non di eliminare il sofferente.

 

 

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