La dolorosa vicenda di Samantha D’Incà, la 30enne bellunese in stato vegetativo, per la quale i genitori hanno chiesto e ottenuto l’autorizzazione al trattamento di fine vita – con relativa interruzione di cibo e idratazione e l’avvio della sedazione – pone una serie di problematicità e si presta alle facili strumentalizzazioni. A commentare il caso con Pro Vita & Famiglia è il presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani, Filippo Maria Boscia che, con l’occasione, ha ricordato qual è il discrimine che rende lecita la pratica della sedazione profonda.
Professor Boscia, la vicenda di Samantha D’Incà non è classificabile né come eutanasia né come suicidio assistito. Eppure, pone seri interrogativi etici: perché?
«In questa vicenda, manca il consenso della paziente. C’è semplicemente la stanchezza di un padre e di una madre che, anziché, sentirsi vincolati a una cultura del dono, propongono a se stessi delle ragioni di efficienza sociale, più che di attenzione alla persona. La sofferenza non può giustificare la barbarie di un omicidio. Situazioni così delicate non possono essere risolte con atti di disumanità mascherati da pietà. Altrimenti ci troveremmo di fronte a figli, che decidono per la morte dei genitori oppure, come in questo caso, a genitori che decidono per la morte dei figli. È il perverso canone della mentalità in voga, secondo il quale i più fragili andrebbero scartati. Dovremmo evitare di mettere in agenda queste cose e, piuttosto, cercare di migliorare la medicina, evitando di promuovere la conclusione di un percorso di vita. Andando avanti così, anche la ricerca medica finirà per essere coinvolta in questo senso. E quando qualcuno ci ricovererà in ospedale dirà: “è meglio che la facciamo finita”. Il caso di una persona che si salva dovrebbe richiamarci all’onere della prova, ad essere meno arroganti, meno assolutisti, meno ideologici, più compatibili con l’azione del medico che è chiamato al prendersi cura, non a dare la morte».
Cosa ci insegna questa storia?
«Un orientamento contemporaneo è quello di trasformare la persona nella meccanica della sua vita, dimenticando il ruolo centrale che questa persona ha e che non è riferita solo ed esclusivamente alla sua meccanica. Ideologicamente sono in molti ad avere visioni meccanicistiche ma, così facendo, pongono in essere operazioni letali e pericolose. È come se, in stato di coma, la vita del paziente venisse codificata come oggetto inerte, come oggetto di management medico professionale e amministrativo, forse anche economico, oscurando pratiche di rette virtù nel vivere sociale e anche nel mondo della sofferenza e delle fasi conclusive della vita. È un modo d’agire disumano, apparentemente “ragionevole” e motivato “per amore” e “per pietà”, operando delle scelte impropriamente definite etiche in contesti che non sono per nulla etici. Stupisce che, proprio in un momento di esplosione di conoscenze mediche e di miglioramento anche della qualità scientifica applicata alla medicina, si operi una distinzione tra vite degne e vite indegne di essere vissute, predestinando delle persone a morire, in tempi decisi da altri. Noi medici, però, disponiamo di un lungo elenco di predestinati a morire che invece, insperabilmente, continuano a vivere, a volte per lungo tempo, contravvenendo a quanto stabilito dalla cosiddetta “verità scientifica”, proposta con arroganza da eccellenze mediche e soloni di turno. Chi ha saputo attendere il risveglio dopo il coma, questi assunti può testimoniarli direttamente».
La sedazione profonda è comunque lecita? Fino a che punto?
«La polemica nasce dal fatto che la sedazione del dolore, in certi casi, è doverosa. Qualcuno sostiene: “se è doverosa la sedazione, permettiamo anche l’eutanasia”. Non è così. La sedazione profonda deve essere fatta se il dolore è tale e importante da richiederla. Se però, intenzionalmente, la rendiamo profonda per determinare la morte della persona, allora le cose stanno diversamente. Si tratterebbe di un’azione eutanasica e non potremmo tollerarla. La sedazione dev’essere sempre proporzionata all’intensità del dolore. Se la si mette in pratica, dev’essere fatto da persone competenti, con un grado di preparazione tale da poter comprendere fin dove ci si può spingere, senza ledere quegli aspetti vitali che vanno tutelati. In un discorso agli anestesisti del 1957, papa Pio XII distingueva tra l’azione di uccidere e la sedazione, che può anche comportare il rischio il rischio di morte. Un’azione cattiva non va mai disposta. Un’azione buona che abbia risposte anche impreviste non può essere condannata. È auspicabile, comunque, che, in condizioni di massima sofferenza, si raggiunga il massimo sollievo».
Siamo di fronte ad un caso che si è prestato a strumentalizzazione?
«Il punto è proprio questo: si vanno a tirare fuori dal cassetto i casi più strani, pur di dimostrare che una persona debba decidere lei quello che deve fare. Certo, noi siamo capaci di intendere e volere, nessuno può compiere azioni che non condivide ma non dobbiamo nemmeno pretendere di affidare azioni ad altri. L’azione perversa che, in questo momento sta venendo fuori, è quella di affidare ai medici un compito che non spetta ai medici. Il suicidio è qualcosa che è sempre esistito, chiunque può farlo a sua discrezione ma, se c’è una persona al suo fianco e non lo impedisce, ciò è molto grave. Le persone in stato di grande sofferenza hanno bisogno d’aiuto, d’essere prese per mano e anche d’essere risollevate da quel baratro nel quale stanno cadendo. Non darei mai una spinta a una persona salita sulla cima di un campanile per uccidersi, né un ulteriore spinta per farlo precipitare più velocemente».