In un recente comunicato stampa, il Confad (Coordinamento Nazionale Famiglie con Disabilità) ha messo in risalto tutta le contraddizioni del disegno di legge sul suicidio assistito che sembra guardare alle situazioni di disabilità grave, con un certo disinteresse, proponendo come unica alternative alle sofferenze, unicamente la morte. Ne abbiamo parlato col presidente Alessandro Chiarini.
Avete aperto il vostro comunicato stampa chiarendo la differenza tra sedazione profonda, eutanasia e suicidio assistito. Forse perché nel disegno di legge sul suicidio assistito vengono usate espressioni linguistiche molto vaghe?
«Ci sembrava necessario fare un’operazione di chiarezza e approfondimento su questo tema che viene espresso in modo troppo frettoloso, senza fornire tutte le indicazioni necessarie per capire e approfondire davvero queste questioni. Ci è parso davvero importante e necessario esprimerci su questo punto perché ci si concentra solo sulla cosiddetta “buona morte”, ma non abbastanza o per niente sulla “buona vita”, disorientando l’opinione pubblica. Il tema di cui ci occupiamo noi che è quello delle disabilità complesse, delle gravi autosufficienze, è un tema che ha a che fare con il diritto ad una buona vita che è un diritto disatteso. Quindi, tanto più ci si occupa di questo, tanto più si fa un’operazione di pieno esercizio di diritti reali e di benessere di vita, che è fondamentale».
Voi sottolineate le carenze del sistema sanitario in merito alle cure palliative. Ultimamente è stato proposto un emendamento che sancisce che anche chi abbia «volontariamente interrotto» un percorso di cure palliative potrà accedere alla morte medicalmente assistita…
«Credo che si tratti di mettere veramente al centro l’esercizio della disponibilità del diritto ad una buona vita. L’operazione culturale da fare è quello di riorientare il senso e la centralità di questa discussione che vede solo, sbrigativamente, il percorso verso una morte medicalmente assistita come l’unica via d’uscita. In realtà le situazioni sono molto più complesse di così, abbiamo testimonianze di famiglie che lottano tutti i giorni con parenti che hanno disabilità complesse, anche con prognosi infauste e malattie neurovegetative, però fino ad ora, l’apprezzamento della vita è tale per cui queste famiglie lottano incessantemente per affermare il diritto alla “buona vita”, per cui noi ci sentiamo interpreti di questa realtà e cerchiamo di darle voce».
Nel vostro comunicato stampa, inoltre, ricordate lo stato di abbandono, da parte dello stato, dei pazienti con patologie gravi e non autosufficienti. Auspicate che lo stato non si accorga di loro solo quando c’è da “liquidare” la loro situazione…
«La questione delle cure palliative e delle terapie domiciliari dev’essere ripresa con grande forza perché da questo punto di vista, attualmente, la situazione è carente ed è tutto sulle spalle delle famiglie che si ritrovano in una situazione spesso di abbandono ed isolamento da parte dello stato stesso. Quindi il dibattito da mettere al centro è il seguente: quanto più si combatte per una buona vita, tanto più si fa un esercizio di senso civico, occupandosi della comunità. Oggi, invece, viene ridotto tutto ad una narrazione che vede l’esercizio della morte come una facoltà che dev’essere a tutti i costi riconosciuta».
Spesso quando si promuove il “diritto alla morte”, lo si fa in nome del principio della dignità e qualità della vita, ma non si fa nulla per promuovere, una buona vita del paziente, una contraddizione?
«Esatto. Per questo è necessario che si riallinei il dibattito su questa direttrice e che è innanzitutto di riaffermare la piena disponibilità del diritto alle cure. Questo purtroppo noi lo stiamo dissipando, come coscienza collettiva, come sistema sanitario nazionale, lentamente e per questo noi combattiamo la nostra buona battaglia, perché crediamo che il sacrificio, l’impegno, l’amore di tante famiglie debba essere decisamente più valorizzato di quanto non lo sia oggi».