Nel periodo della pandemia Pro Vita & Famiglia ha raggiunto diverse realtà, centri di assistenza e persone impegnate 24 ore su 24 in attività di volontariato. Tra questi anche don Luigi D’Errico, referente del settore disabili e catechesi dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma, che è dal 2007 parroco nella Chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda, nel quartiere Ardeatino, dove da tempo è avviata un’esperienza esemplare di catechesi per e con le persone disabili. Alla sua parrocchia, Pro Vita & Famiglia ha donato centinaia di mascherine. Ne abbiamo parlato proprio insieme a don Luigi
Don Luigi, ci racconta la vostra attività?
«Tutto nasce dal cercare di fare aderire il Vangelo alla realtà e certamente le famiglie che hanno persone disabili di ogni età vivono in condizioni che sono emerse ancora più drammatiche in questo periodo. Quello che è apparso oggi è che soprattutto anziani, disabili, fragili o malati ecc. sono risultate accantonate, messe da parte e le famiglie soffrono molto queste condizioni. Per fare un esempio ci sono casi in cui la scolarizzazione fuori della rete è stata impossibile. Addirittura ci sono stati dei casi in cui si è tentato di fare la fisioterapia a distanza che non ha senso. Non si è pensato ad un intervento ad hoc e alla fatica delle persone. Portare la mascherina per alcune persone è impossibile: alcuni sono stati apostrofati per strada perché considerati improvvidi o gli hanno urlato contro. Qualcuno ha chiesto addirittura di mettere un segno ai disabili. Un segno che ricorda altri tempi. Bisogna che torni tutto come prima ma con qualche anticorpo per combattere anche la malattia dell’abbandono delle famiglie. Ci sono famiglie composte da un disabile adulto che hanno necessità di un’attenzione particolare, ad hoc. E’ il momento di metterla in atto. Le parrocchie possono portare a galla certe situazioni con la delicatezza che non hanno altre realtà».
Come avete vissuto questi giorni di lockdown, si sono verificate delle emergenze?
«Noi non abbiamo mai chiuso, se non una notte in cui ci hanno chiesto esplicitamente di chiudere. Chiudere la chiesa a mio avviso è un non senso perché la gente si comporta in modo ragionevole, rispettando le normali misure precauzionali. Diverse persone sono venute a chiedere la confessione, basta mantenere le distanze e le mascherine. Alcuni provvedimenti sono stati contraddittori e hanno lasciato un segno nella gente, come alcuni annunci e interventi, ancora oggi non realizzati nella concretezza».
La donazione di Pro Vita & Famiglia in che modo ha contribuito a rendere possibile il vostro lavoro?
«Le mascherine sono sempre utili, come tutte quelle cose che facilitano la partecipazione non a distanza sociale perché già la società è difficile, se poi diventa un modo di ragionare, figuriamoci! Se ci distanziamo socialmente, pensiamo che i disabili sono già “distanziati”, il prossimo passo sarà decidere di eliminarli. La questione è che e mascherine sono servite perché abbiamo tantissimi poveri che chiedono aiuto, abbiamo ricevuto molti aiuti inaspettati anche da altre parti del mondo. Quello che ci si aspetta adesso è quello di annodare tutti questi fili e creare una bella rete di amicizie che possono sostenere dei cambiamenti non più prorogabili».
Com’è cambiato il vostro lavoro, nelle ultime settimane, in cui l’emergenza sanitaria sembra essersi attenuata?
«La realtà sembra essere adesso un po’ più complessa: sono cambiate le relazioni, dobbiamo salvaguardare noi e chiunque venga da noi. La parrocchia poi è aperta sempre ed entra chiunque. Tanta gente è morta, non di coronavirus ma con le stesse esigenze di chiunque stava male e aveva bisogno di assistenza religiosa. Ora si sta avvicinando gente che ha dovuto affrontare “non funerali” per le disposizioni che vigevano durante la pandemia. Anche questa gente ha bisogno di aiuto e tutto quello che ci è successo, potrebbe essere il preavvertimento di quello che potrebbe riaccadere tra un po’».