02/04/2020

Coronavirus. Boscia (AMCI): “Riscoprire responsabilità e uno stile di vita semplice”

Riscoprire la dimensione umana ed etica della pratica medica negli ospedali. Per le famiglie, invece, è l’occasione per pensare a uno stile di vita più umano e più sobrio, all’insegna di relazioni più vere. Il tratto comune, che coinvolge davvero tutti, è comunque il rinnovato senso di responsabilità individuale e collettiva. È in quest’ottica che il professor Filippo Maria Boscia, presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI) guarda all’emergenza coronavirus in corso. A colloquio con Pro Vita & Famiglia, Boscia si è soffermato sui rischi morali legati alla pandemia (eutanasia e abbandono terapeutico su tutti) ma anche sulle opportunità per un rinnovato approccio alla malattia e alla sofferenza da parte di ogni singola persona.

Professor Boscia, qual è il suo approccio generale come medico in questa pandemia?

«Mi sembra che la malattia presenti un andamento clinico irregolare ed imprevedibile, sulla falsariga di eventi che non sono nuovi alla medicina ma che, prima d’ora non si erano mai palesati in tempi così brevi. Al pari delle patologie stagionali, colpisce più duramente i soggetti più fragili. In Italia, finora, non si è ancora avuta la necessità di decisioni drastiche riguardo ai pazienti. C’è sicuramente una necessità di ottemperare ai piani di prevenzione antivirale e di monitorare affinché i paradigmi della vita e l’etica ippocratica siano rispettati. Uno dei rischi più grandi è che gli anziani diventino scarto ma credo che, finora, la saggezza abbia di gran lunga prevalso, rispetto alle situazioni che si sono registrate in America. In queste ore difficili, va mantenuto un orientamento misericordioso, uno sguardo alla sofferenza, sostenuti anche dalla fede. È chiaro che non sono mancati messaggi di superficialità e atteggiamenti di pigrizia di fondo. Si è, ad esempio, sottovalutato le problematiche cui sarebbero andate incontro le case di riposo o le comunità monastiche. Ci sono poi le paure, le inevitabili distanze. Hanno paura i medici, hanno paura i malati ad andare negli ospedali. Nel rispondere a questa emergenza, credo che dovremmo essere animati tutti dalle virtù della prudenza e della fortezza, operatori sanitari e pastorali in primis. All’hashtag #iorestoacasa, bisognerebbe affiancare “io sto con gli anziani”. L’anziano, infatti, ha bisogno di una vicinanza che non è soltanto quella strettamente medica ma è una vicinanza fatta di sguardi, di carezze di rassicurazioni. Forse tutti i centri di rianimazione e di assistenza integrata dovrebbero avere anche la possibilità di un collegamento con fotocamera, prendere partecipi i familiari dei pazienti dell’azione benefica della cura. Dovremmo farci carico di quel bisogno di aiuto che in alcuni pazienti è solamente implicito. Per noi medici, il nostro fine essenziale è prendersi cura della vita umana e ciò non può prescindere da una buona relazione con il paziente e da una forte responsabilizzazione del cittadino anche nell’ambito dell’impatto di fiducia tra paziente, medico e sistema sanitario».

Che posizione assume, in qualità di presidente dell’AMCI, nei confronti delle raccomandazioni della SIAARTI?

«Quella della SIAARTI è una vicenda che ha radici molto lontane. L’economia inizia a comandare anche all’interno di rapporti che dovrebbero essere invece tesi al recupero e alla difesa della vita. Cinque anni fa, fu sollevato un problema analogo in una clinica dell’Oregon, di fronte a sei pazienti che attendevano il trapianto per malattie non curabili. Si era posto l’interrogativo se allocare risorse per questi pazienti o se destinarle alla tutela del settore materno-infantile. Quando ci si trova in situazioni come quella dell’Oregon o anche in situazioni come l’attuale, non bisogna pensare ad un “clima di guerra” ma, piuttosto, ad un clima di cooperazione e di presenza “forzata” nelle dinamiche dell’organizzazione sanitaria, proprio perché la sanità non è fatta solo di costi e di proporzioni efficacia/efficienza. I medici non sono mai completamente liberi nelle loro scelte e sono anch’essi vulnerabili. È l’intera organizzazione sanitaria, del resto, ad essersi rivelata impreparata e vulnerabile, anche sulla spinta dell’“economicizzazione” della sanità. Il personale sanitario si ritrova così sempre meno preso dalla preoccupazione etica per il benessere e la dignità del paziente e sempre più assorbito da scelte pratiche opinabili, che hanno fatto prevalere i tecnicismi sulla dimensione relazionale. Su questa vulnerabilità dobbiamo riflettere molto, perché, per il futuro, dobbiamo costruire una sanità che non sia strettamente limitata alle necessità di un momento non emergenziale».

Che consigli si sente di dare, infine, alle famiglie che vivono l’emergenza confinate in casa, trovandosi così in un’inedita situazione di continua prossimità?

«Senza amore non si può guarire nessuno. Non dobbiamo mai sottovalutare i sentimenti di solitudine che non coinvolgono solo i malati ma anche le famiglie. Ogni malato fa ammalare la famiglia, ogni persona malata che rimane sola con la sua sofferenza trasmette un dolore e un dispiacere a tutti gli altri che gli stanno vicini, proprio perché il dolore e la fatica di elaborare la paura sono drammatici. Ma questa è l’occasione di instaurare un rapporto diverso con la vita, perché, in questo momento, ci stiamo accorgendo che, in passato, avevamo programmato la vita in modo assolutamente improprio, dando la priorità a divertimenti, vacanze, crociere, settimane bianche. Oggi abbiamo la possibilità di vedere i nostri figli tutto il giorno, siamo obbligati a giocare con loro, a riflettere assieme a loro, è l’occasione per prendere le distanze dai cellulari e da tante sciocchezze televisive che da anni ci vengono dispensate. Se non siamo capaci di gestire le nostre paure, rischiamo di cadere in isterie collettive che crediamo possano farci da terapia. Non basta affacciarci al balcone per scambiarci una vicendevole solidarietà. In primo luogo, dobbiamo riscoprire un’etica primaria nella speranza di sconfiggere il male. Se per sconfiggere il male siamo chiamati a una reclusione in casa, dobbiamo saper accettare e gestire questa situazione all’insegna di una responsabilità personale. Noi siamo sempre abituati a dare la responsabilità agli altri ma forse è giunto il momento di assumerci ognuno personalmente la propria responsabilità. Dovremmo riflettere su quattro concetti chiave che sono parte integrante del sistema sanitario: la conoscenza della nostra vulnerabilità; il dovere della cura; il dovere di mantenere la nostra dignità e la fede; ma soprattutto una maggiore semplicità del nostro stile di vita. La semplicità del vivere è una delle soluzioni che può agire anche come deterrente verso qualsiasi condizione di ostentazione, di avidità, di competizione, di profitto economico e di speculazione che purtroppo ha permeato la nostra società».

 

di Luca Marcolivio

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