È da settimane ormai che il Coronavirus ha colpito il nostro Paese e la “rassicurazione” che viene data quasi in continuazione è che, fra i contagiati, muoiono prevalentemente gli anziani.
Certo, si tratta di un dato importante da tenere in considerazione per tutelare a dovere gli anziani e per non allarmare esageratamente i giovani (anche se nessuno è del tutto fuori pericolo). Ma questo ritornello continuo sembra quasi banalizzare la portata di ciò che si sta dicendo, come se la morte degli anziani non fosse un male o chissà che male.
E tutto questo non fa che minimizzare la morte di chi ha già vissuto a lungo o di chi non “scoppia” di salute. Abbiamo già parlato di come la Siaarti (Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva) avrebbe profilato la possibilità di dover scegliere chi salvare, prediligendo alcuni pazienti a scapito di altri, visto l’«enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive».
E abbiamo già detto a tal proposito che, di fronte alla «discrepanza tra necessità e risorse disponibili», l’atteggiamento da adottare dovrebbe essere quello di fare pressing sulle istituzioni affinché ciascuno riceva un trattamento umano, piuttosto che «mettersi a ragionare su quali pazienti curare per primi».
Questi ragionamenti, infatti, portano a identificare delle categorie di persone la cui morte è considerata “meno grave” rispetto ad altre, il ché è assurdo, perché ognuno di noi ha un valore inestimabile.
Insomma, non ci sono esseri umani di serie A ed altri di serie B. In un mondo oggi così attento alle discriminazioni, è strano che non ci si sia accorti del fatto che i più discriminati di tutti sono proprio anziani, malati e disabili.
di Luca Scalise