Assieme all’avvocato ed ex senatore Simone Pillon, l’altro grande “amico italiano” della piccola Indi Gregory e dei suoi genitori è Massimo Gandolfini, contattato per l’occasione da Pro Vita & Famiglia. La scorsa settimana, il neurochirurgo, leader del Family Day e portavoce di Scegliamo la Vita, aveva messo a punto una memoria, invitata ai genitori di Indi, nel Regno Unito. Ieri, purtroppo, la notizia che i giudici non intendono far trasferire la piccola di 8 mesi in Italia, dove sarebbe disposto ad accoglierla l’Ospedale Bambino Gesù e nonostante la chiara volontà dei genitori.
Professor Gandolfini, sul piano strettamente clinico, cosa può dirci della patologia che affligge questa bambina? Ci sono analogie con i più noti casi di Charlie Gard e Alfie Evans?
«Ho ricevuto dal senatore Pillon la documentazione clinica completa, secondo la quale la bambina soffre una patologia congenita che viene chiamata “malattia mitocondriale”. Tradotto in termini molto semplici: si riscontra un errore genetico nel suo Dna, per cui nessuno dei muscoli dell’intero corpo si sviluppa, in modo particolare i muscoli della respirazione, della gabbia toracica e il diaframma. Ciò comporta che la bambina non è in grado di respirare autonomamente. Oggi come oggi, siamo totalmente disarmati, non siamo in grado di guarire queste condizioni, quindi dal punto di vista strettamente scientifico, allo stato attuale delle conoscenze, la bambina è destinata a morire. Detto questo, è altrettanto vero che la medicina fa continuamente enormi passi avanti, per cui quello che oggi si presenta come un esito infausto, potrebbe non esserlo fra un anno. Anche per questo, interrompere il sostegno vitale, come si vorrebbe fare in questo caso, è un errore è inaccettabile sul piano etico: il sostegno vitale deve essere sempre garantito e deve essere sospeso soltanto nella misura in cui diventasse fonte di patologia. Detto in altri termini: a un certo momento, anche la ventilazione automatica diventa insufficiente, perché va incontro alla fibrosi polmonare, quindi chiaramente la bambina morirebbe, ma di morte naturale, non di morte indotta».
Quanto possono sopravvivere pazienti in queste condizioni? Ci sono dati o statistiche a riguardo?
«Non sono a conoscenza di statistiche su questa patologia ma, in generale, posso dire, anche per esperienza professionale, che, in condizioni del genere, un bambino può sopravvivere 18-20 mesi, perché, oltre quella soglia, i polmoni non tollerano più la ventilazione meccanica».
Secondo lei, c’è qualche possibilità che, a seguito di un eventuale trasferimento al Bambino Gesù di Roma, possa scorgersi all’orizzonte una terapia sperimentale?
«Il trasferimento avrebbe innanzitutto un valore umano, etico e compassionevole, che sottintende la volontà di non provocare la morte della bambina. Ribadisco comunque che, dati gli sviluppi della medicina, è più che legittimo compiere ulteriori tentativi con terapie sperimentali. In terzo luogo, è fondamentale accompagnare il paziente alla morte naturale, tanto più se non si dovessero trovare terapie sperimentali efficaci».
In conclusione, quali ulteriori considerazioni etiche, si possono fare intorno a questo caso?
«In particolare, nel Regno Unito, ma ormai un po’ dappertutto, si sta sempre più affermando una “cultura dello scarto”: di fronte a condizioni che sono certamente terribilmente gravose e difficili dal punto di vista medico e sanitario, si getta la spugna dicendo che il paziente è già comunque destinato a morire per cui che muoia domani o muoia oggi, è la stessa cosa. Questo atteggiamento di desistenza dalle cure è eticamente inaccettabile».