Tra le figure chiave nella costituzione del Comitato referendario “Finché c’è Vita - #NoEutanasiaLegale” c’è don Isidoro Mercuri Giovinazzo. Il sacerdote è cappellano ospedaliero, responsabile della Pastorale della Salute presso la Diocesi di Aosta e presidente dell’Associazione Italiana di Pastorale Sanitaria. A colloquio con Pro Vita & Famiglia, il sacerdote ha spiegato quali sono le sfide in ballo in questo momento, con un accenno anche all’odierna Giornata Mondiale del Malato.
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Don Isidoro, il Comitato “Finché c’è Vita - #NoEutanasiaLegale” è stato appena formato. La prima grande sfida sarà il deposito di una memoria presso la Corte Costituzionale, il prossimo 15 febbraio, giorno del pronunciamento sulla legittimità del referendum. Qual è la sua visione dell’attuale scenario politico?
«Innanzitutto, ritengo che la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente, attualmente disciplinato dall’articolo 579 del Codice Penale, sarebbe davvero una grande ingiustizia. Al primo posto vanno messe la dignità della persona e della vita. Non c’è autodeterminazione che possa obbligare nessuno alla somministrazione di un farmaco letale. Nessun medico o infermiere può essere obbligato dalla legge a commettere omicidio. L’autodeterminazione di un individuo non può coinvolgere l’azione di terzi in suo “favore”, tanto più se si parla di togliere la vita a qualcuno. Quando leggo nella bozza di legge che, per la persona sottoposta ad eutanasia, si parla di “morte naturale”, dico che siamo di fronte ad un ossimoro. Se una morte è indotta da un farmaco letale, è tutto tranne che una morte naturale. Anche il modo in cui viene posta la questione della sofferenza fisica o psichica è inaccettabile. La proposta di legge è rivolta a persone capaci di intendere e volere: come può, però, una persona afflitta da una malattia psichica così grave, da una forma di depressione così terrificante, essere lucida al punto da poter scegliere liberamente di darsi la morte?».
Qual è allora l’alternativa a questa cultura eutanasica?
«Dovremmo soprattutto puntare lo sguardo alla legge 38/2010 sulla terapia del dolore e sulle cure palliative. Una legge che dovrebbe essere rinforzata e che dovrebbe trovare applicazione nel mondo sanitario. Da questo punto di vista, la Valle d’Aosta, dove vivo, è un’isola felice. In qualità di cappellano ospedaliero vado tutti i giorni negli hospice e nei reparti oncologici; quindi, noto la differenza tra oggi e vent’anni fa. Mi accorgo di come stanno i pazienti, di come vengono curati, di come per ciascuno di loro, le terapie adeguate alla sostenibilità del dolore facciano la differenza. Parlando con medici e altri cappellani di altre parti d’Italia, apprendo di come altrove questa legge non abbia trovato applicazione, perché mancano i fondi o perché le cure domiciliari sono deficitarie. La chiave di tutto, quindi, è implementare la legge 38, darle attuazione».
La scusa ricorrente è la mancanza di fondi pubblici, ma si tratta anche di un alibi per i sostenitori non dichiarati dell’eutanasia…
«Proprio così. Non deve essere una questione economica a spingere le coscienze a una decisione di questo tipo. Il fatto è che siamo immersi in una “cultura dello scarto”: lo ripete spesso papa Francesco e, a questo proposito, ringrazio Dio per il bellissimo intervento che il Santo Padre ha fatto sul valore, sull’inviolabilità e sull’indisponibilità della vita, proprio il giorno del nostro convegno e della nascita del nostro Comitato. Il Papa ribadisce e sottolinea con forza il problema della cultura dello scarto, una cultura del fare e non dell’essere, per cui se non puoi più fare, la tua esistenza non vale più la pena. Chi, tuttavia, stabilisce questo e perché?».
Oggi è la Giornata Mondiale del Malato. Che valore assume questo evento in un tempo in cui la dignità del malato è così calpestata?
«Si parla molto di ospedali, di RSA, di case di riposo per anziani o di case private come “case di misericordia”. Papa Francesco usa questo termine nel suo messaggio per questa Giornata Mondiale del Malato, il cui tema è proprio «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Porsi accanto a chi soffre in un cammino di carità. Si tratta quindi di porsi accanto a chi soffre, in un cammino di carità, di amorevolezza, di vicinanza proprio alle persone che soffrono di più, alle persone che percepiscono il loro dolore come ineffabile. Queste “case di misericordia” («Ero malato e mi avete visitato» Mt 25,36) ci possono dare uno strumento. Una casa della misericordia è una casa in cui il Signore si prende cura delle miserie dell’umanità e dà a noi, come battezzati questo mandato: “io do a te, nelle tue mani, questo strumento, sii misericordioso con il tuo prossimo”. Credo sia il motore di ogni battezzato, di ogni cristiano e di ogni individuo, al di là di ogni discorso confessionale o religioso. È un discorso prima di tutto umano».
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