02/04/2017

Down: un cromosoma in più, ma con “un cuore selvaggio”

“My Feral Hearth” (il mio cuore selvaggio, ferino) è un film straordinario che ha come protagonista un giovane portatore della sindrome di Down.

Diretto da Jane Gull, soggetto di Duncan Paveling, accanto al protagonista, Steven Brandon, recitano Shana Swash, Will Rastall, e Pixie Le Nodo.

Anche se è stato girato in un villaggio inglese grigio e nuvoloso, in un paesaggio inglese grigio nuvoloso e umido, e in una casa di cura, il film proietta nel cuore degli spettatori un sentimento di raro e benefico calore.

Luca, interpretato brillantemente da Steven Brandon, trentottenne con la sindrome di Down, è diventato assistente della sua anziana madre. Lui la nutre, la la cura, l’aiuta a mettersi a letto e ad alzarsi... Ma quando lei muore, lui è costretto ad entrare in una sorta di casa di cura con altre persone disabili.

Ancora in lutto per la sua mamma, in quel nuovo ambiente caotico, Luca è profondamente infelice. Ma poi incontra le persone giuste: un’assistente, Eva, (Shana Swash) e un giardiniere, Pete (Will Rastall) che come Luca deve elaborare un lutto... e poi una persona di cui Luca dovrà di nuovo prendersi cura.

Al centro del film sono diversi i temi che si intrecciano:  la felicità si trova nella cura per l’altro, tutti siamo vulnerabili e bisognosi, non solo le persone con sindrome di Down. La disabilità non è da temere, né da tenere nascosta, né è qualcosa di cui vergognarsi. Ognuno di noi ha bisogno degli altri, solo in modi diversi: chi intellettualmente, chi emotivamente, chi fisicamente e socialmente. Ma la ricetta  universale per la felicità è il dono di sé e la generosità.

La prospettiva in cui si dispiega tutto il film è perfettamente laica: non c’è il minimo accenno alla fede né cristiana né di altro tipo.

Inoltre, si tratta di un film sobrio e non sentimentale. Non c’è nessun compiacimento melenso e pietistico circa la disabilità e i Down: magari, però, si scopre che i veri disabili sono quelli che temono il sacrificio nel prendersi cura degli altri.

L’uscita del film nel Regno Unito è coincisa col momento in cui il sistema sanitario britannico sembra deciso a rilevare con la diagnosi prenatale il maggior numero possibile di bambini con sindrome di Down: il governo britannico ha annunciato che dal 2018 in poi, il National Health Service offrirà il test gratuito a tutte le donne che hanno almeno 1 possibilità su 150 di avere un figlio  con sindrome di Down. Dal momento che più del 90 per cento delle donne inglesi in tal caso abortisce, la cosa suona proprio come una “caccia al Down”: probabilmente anche gli inglesi vogliono emulare il triste primato dell’Isalnda, dove non nascono più bambini Down.

Nel Regno Unito, ci sono state 120 proiezioni di questo film in quattro mesi, la maggior parte delle quali attraverso una nuova tecnica di distribuzione, il cinema-on-demand.

Stiamo cercando di capire se e quando sarà possibile vederlo, sottotitolato, in Italia (temiamo sia difficile che qualcuno investa la somma necessaria per il doppiaggio): andremmo tutti certamente a vederlo. Potrebbe essere un modo per esprimere il nostro sostegno alla ricerca della cura degli effetti negativi della sindrome di Down e potrebbe servire a fermare l’olocausto di chi ha la sola colpa di avere un cromosoma in più.

Redazione


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