Una donna che si batte in favore dei diritti della diversità, con i tempi che corrono, dovrebbe guadagnarsi subito l’attenzione dei riflettori e l’ovazione dei grandi media. Dovrebbe finire immediatamente sui telegiornali di mezzo mondo, ospite dei talk show e magari come relatrice in qualche contesto internazionale, come un summit delle Nazioni Unite. Tutto questo in teoria, s’intende. In pratica, però, ci sono purtroppo ottime ragioni per ritenere che così non sarà per la battaglia sociale e legale che, da tempo, sta portando avanti Heidi Crowter; questo nome per primo, c’è da pensare, a quasi tutti non dirà nulla, eppure è significativo.
Sì, perché si tratta di una giovane inglese di 27 anni con la sindrome di Down la quale, insieme a Maire Lee-Wilson - il cui figlio, Aidan, ha anch’egli la Trisomia 21 – sta cercando di cambiare la legge del suo Paese, appunto il Regno Unito. Il motivo è presto detto: l’Abortion Act del 1967 consentiva l'aborto fino al limite della praticabilità - allora considerato come 28 settimane - ma nel 1990, quando il limite fu abbassato a 24 settimane, fu tenuta un’accezione: quella per gli interventi aventi «un rischio sostanziale» di «anomalie mentali» tali da far risultare i nascituri «gravemente handicappati». Tra queste «anomalie» c’era – e c’è – la sindrome di Down.
Usiamo il termine al presente perché la battaglia giudiziaria di Heidi Crowter al momento la vede sconfitta. È infatti notizia di questi giorni la decisione dei giudici della Corte d'appello del Regno Unito di respingere il ricorso di Crowter contro la sezione dell'Abortion Act che consente l'aborto fino alla nascita per i bambini disabili. A tale decisione la magistratura inglese è pervenuta dopo che i giudici della Corte d'Appello – Nicholas Underhill, Kathryn Thirlwall e Peter Jackson - hanno stabilito che l'Abortion Act non interferisce con i diritti dei «disabili viventi». Pertanto, è stato il ragionamento della Corte, la legge contestata risulta ancora un equilibrio tra i diritti del nascituro e quelli delle donne.
Inutile dire come un simile verdetto non accontenti affatto Heidi Crowter, che, su Twitter, ha recentemente reso noto di aver iniziato questa battaglia legale a seguito di un dialogo tra lei e la madre. «Quando la mamma mi ha parlato della discriminazione contro i bambini come me nel grembo materno», sono state le sue parole, «mi sono sentita come se mi fosse stato piantato un coltello nel cuore. Mi ha fatto sentire meno apprezzata delle altre persone». Sono considerazioni che è difficile non comprendere e che danno la forza a questa giovane donna di continuare la sua battaglia.
A tal proposito, Crowter, il cui marito ha anch’egli la Tristomia 21, ha dichiarato: «Quando William Wilberforce voleva abolire la tratta degli schiavi non si è arreso quando le cose non sono andate per il verso giusto». Quindi, ha aggiunto, neppure io mi arrenderò «perché la legge dovrebbe essere cambiata per eliminare i pregiudizi sulla sindrome di Down». Purtroppo, non è solo una faccenda di pregiudizi ma anche di vero e proprio sterminio, come questa attivista sta benissimo.
Negli Stati Uniti, tanto per dare qualche numero, viene abortito il 67% dei nascituri con Sindrome di Down (Prenatal Diagnosis, 2012), percentuale che sale ulteriormente tra le madri con più alti livelli d’istruzione (The Atlantic, 2020). Ma in Europa la situazione è ancora più drammatica. In Danimarca, primo Paese europeo a istituire lo screening per la sindrome di Down, quasi tutti i bambini con diagnosi di sindrome di Down vengono abortiti, esito che interessa il 77% di questi nascituri anche in Francia e il 98% in Islanda (Lejeunefoundation, 2017).
Ad accelerare questo spietato processo di decimazione è una miscela di mentalità eugenetica e di diffusione di test prenatali. Un’indagine sugli ospedali inglesi ha messo in luce come, alla diffusione di tali test, il numero di bambini con Sindrome di Down nati precipiti da uno ogni 956 nascite ad uno ogni 1.368 (The Times, 2019). Heidi Crowter è dunque a tutti gli effetti come altri, anzi ben più di altri, una sopravvissuta all’Abortion Act. Una legge che è anche una somma ingiustizia che questa giovane donna, spinta da un idealismo sempre più raro di questi tempi, intende estirpare. E c’è da sperare che ci riesca, scrivendo una pagina di storia che sarebbe davvero memorabile.