Il tatuaggio della vecchietta che chiede di non essere sottoposta a eutanasia dovremmo farcelo tutti? E servirà a evitare che ci “accorcino la vita”?
Al Gosport War Memorial Hospital, nell’Hampshire, in Inghilterra, tra il 1989 e il 2000, risulta che 456 pazienti sono stati uccisi deliberatamente, con un eccesso di antidolorifici, in modo assolutamente discrezionale dal personale sanitario. Di solito perché considerati “pesanti”, fastidiosi. E pensare che in Inghilterra – l’Inghilterra di Charlie, Alfie e Isaiah – l’eutanasia formalmente non è legale: a quale ecatombe si assisterebbe se un domani fosse legalizzata?
Il 55% delle vittime non soffriva; nel 30% dei casi non risulta alcun motivo per l’uso di dosi massicce di morfina; molti erano autosufficienti: “l’eutanasia” era diventata una routine, frutto avvelenato di una mentalità mortifera dilagante – e dilagata – che ormai ha fatto dimenticare la sacralità della vita.
Anche usare il termine “eutanasia” significa assecondare questa mentalità e accettare supinamente il lavaggio del cervello che ci fa la neolingua: non si è trattato di “456 casi di eutanasia non consensuale etc. etc.” si è trattato di 456 omicidi: non c’è niente di “eu“, niente di bello né di buono, in quanto hanno fatto in quell’ospedale. Non c’è niente di bello nella morte.
Eppure molti media, anche di prestigio, come The Times, neanche parlano di eutanasia, usano l’espressione “accorciamento della vita” dei “pazienti”.
Nota Alex Schadenberg, di Euthanasia Prevention Coalition: forse potrebbero anche dire che che Jack lo Squartatore abbia “accorciato le vite” delle prostitute nell’East End di Londra.
Anche il termine “pazienti” in questo caso andrebbe soppesato: è una parola neutra che mette in secondo piano il fatto che si trattava di uomini e donne, madri, padri, mogli, mariti, nonni, zii... esseri umani, persone con una storia e una vita di relazione: non anonime “vittime di un disastro aereo (per dire)”: persone uccise in modo premeditato, una per una.
I cultori della morte, in circostanze come queste si difendono dicendo che loro “invece” sono per la “scelta”, l’autodeterminazione, la libertà di morire.
Certo: definendola una “scelta” del morituro, si toglie ogni responsabilità morale dall’azione di chi lo uccide “assitendolo nel suicidio” e si banalizza la morte... diventa un optional.
La decisione di giustiziare un essere umano negli Stati Uniti – anche il criminale più crudele e irrecuperabile – è almeno accompagnata da rituali e cerimonie: si sottolinea in qualche modo che si sta verificando qualcosa di enorme importanza morale. Con la diffusione della morte assistita, il suicidio viene dato come “opzione terapeutica” in un opuscolo. Il messaggio è “non giudichiamo”, cioè “non ci interessa se vivi o muori”.
E allora, se la morte è solo una “opzione” banale, perché ci sorprende che un medico o un infermiere tratti la vita umana di 456 pazienti così superficialmente? Se l’atto del suicidio non comporta una responsabilità morale per l’individuo, perché uccidere un paziente – o “abbreviare una vita” – dovrebbe comportare una particolare responsabilità morale per un medico?
Chissà se qualcuno sarà ritenuto responsabile per i crimini che si sono verificati al Gosport. Ma se la vita e la morte non sono altro che “opzioni possibili”, fatti come questo si ripeteranno inevitabilmente. Si comincia, all’inizio, con la storia della scelta e dell’autodeterminazione. Ma il passo verso l’eutanasia non consensuale è breve: in Olanda 431 persone sono state uccise senza consenso nel 2015 e nelle Fiandre, in Belgio, più di 1.000 persone sono state uccise senza il loro consenso nel 2013.
Redazione