Recentemente si è svolto un incontro-dibattito a Trieste sulle questioni del fine-vita. Moderato dalla Consigliera comunale Laura Famulari, insieme a Manuela Mandler della Segreteria Provinciale del PD, l’incontro ha visto la partecipazione del professor Luigi Gaudino, associato di Diritto Privato Comparato dell’Università di Udine e dell’educatore ed ex-preside Silvano Magnelli.
La frase rappresentativa dell’incontro è stata: «Accompagnare è una delle più belle parole che esistono nel nostro vocabolario. Perché quindi non possiamo accompagnare qualcuno alla fine della propria vita?». Magnelli, partendo dal richiamo a non banalizzare il tema in questione, ha ribadito la necessità di un «processo di convergenza politica e di una valorizzazione della fase precedente al fine vita», «per evitare di arrivare impreparati a quel momento così decisivo». Il professor Gaudino, invece, ha ricordato che «il legislatore italiano ha tutti i presupposti per fare una buona legge» e ha richiamato come modelli esemplari quelli delle leggi esistenti in Svizzera, Canada o Gran Bretagna. Tutti hanno poi concluso che è necessario «un punto di equilibrio tra posizioni diverse, per evitare polemiche e le sofferenze di chi è malato, e la conseguente perdita di credibilità della politica[…]. Noi vogliamo assolutamente che la Legge sul suicidio assistito vada avanti: ci sono tutte le condizioni affinché possa essere approvata, in tempi rapidi, in questa fase finale della legislatura. Crediamo ci siano le condizioni anche politiche».
Il primo elemento da analizzare è l’uso lacrimevole e suadente della parola «accompagnare». In realtà, con le leggi sull’eutanasia non si accompagna nessuno ma lo si conduce direttamente alla morte. L’accompagnamento prevede una partecipazione attiva alla valorizzazione della vita fino al suo temine ultimo naturale. L’uomo malato o morente non è meno uomo, non ha meno dignità, non ha meno valore se soffre. Si tratta di una tappa della vita umana e il reale compito di una comunità è quello di prendersi carico delle persone in questa fase così delicata e difficile. Questo tipo di «accompagnamento», che abbia come fine l’interruzione volontaria della vita, è solo virtuale e lascia in realtà l’uomo sempre più solo e sempre più incapace di comunicare.
«Non dobbiamo eliminare il malato, ma la sofferenza», dovrebbe dunque essere lo spirito che ama chi si occupa di fine-vita. Non riuscire a curare una malattia («to cure») non è una sconfitta e non esclude affatto la possibilità di prendersi cura del malato («to care»). Appare evidente che, in questo tempo di pandemia, dove siamo tutti più fragili, depressi, incerti, soli e incapaci di reagire, questo messaggio di apparente solidarietà («accompagnare») trova facili consensi, sembra logico, umano e realmente dignitoso. Si tratta dell’ennesimo inganno, anche semantico, che porta l’uomo a credere che ogni sua decisione («autodeterminazione») sia assolutamente giusta e quasi «dogmatica», indiscutibile, perché frutto di una scelta (in realtà viziata da uno stato di debolezza e sofferenza che la malattia porta con sé). Inoltre, l’eutanasia e il suicidio assistito sono viste come «l’ultima spiaggia» in una vita insignificante, sofferente e incomprensibile, chiudendo pertanto l’orizzonte ad una visione più ampia.
Nessuno banalizza la questione fine-vita: si tratta di un evento molto serio che coinvolge l’intera umanità e da cui nessuno è escluso. La morte, la sofferenza e la malattia sono comuni a noi tutti. Vogliamo cercare di darne un significato oppure preferiamo eludere la domanda? Non è chiaro poi cosa significhi «valorizzare la fase precedente il fine-vita»: se si tratta di incrementare politiche per gli anziani, i poveri, gli «ultimi», i sofferenti, i malati cronici, ci trova d’accordo; se si tratta di preparare il terreno per eliminare i malati e il peso sociale ed economico ad essi legato, non possiamo che manifestare il nostro più convinto dissenso.
E’ impossibile non pensare al rapido cambiamento demografico delle popolazioni, specie quelle europee, con tassi di natalità quasi azzerati e un aumento dell’aspettativa di vita. Tutti questi anziani, perché non più produttivi, sono inutili zavorre o rappresentano ancora un valore aggiunto per la società?
Dispiace che il professor Gaudino abbia richiamato altri paesi con leggi sul suicidio assistito, definendoli modelli. In realtà, la più grave disumanizzazione e la peggiore mentalità eutanasica si osservano proprio là dove da tempo queste legislazioni si sono dimostrate permissive. Dai casi gravi, con malattie incurabili, si è passati rapidamente alla morte di persone che erano affette da varie forme di depressione o solo da un percepito e generico «male di vivere.
Riteniamo poi che una legge sul suicidio assistito possa difficilmente trovare un punto di equilibrio, a meno che tutti non siano d’accordo nell’approvarla rinunciando a difendere il principio della dignità della vita. Infine, è sorprendente che si spinga ad approvare una legge che dovrebbe «evitare polemiche e le sofferenze di chi è malato», quando il nostro Paese non è in grado di garantire le cure palliative, le terapie per patologie non correlate al Covid19, per le malattie mentali o per la prevenzione dei suicidi, come già ampiamente denunciato dall’OMS e da vari Report nazionali e internazionali.
Il testo Bazoli, in discussione in questi giorni alla Camera, va combattuto perché la sua struttura ontologica è assolutamente deleteria per i malati e per quanti chiedono aiuto o cercano una risposta che sia più «alta», rispettosa di quella grandezza morale, spirituale e affettiva che caratterizza ogni essere umano.