Il prossimo 9 febbraio si terrà l'evento “Il dovere della società di fronte alla sofferenza”, organizzato da Pro Vita & Famiglia ed Euthanasia Prevention Coalition, a piazza Montecitorio, nella Sala Capranichetta dell’Hotel Nazionale alle ore 10:30. Di discuterà sul fine vita e sulle drammatiche spinte eutanasiche che l'Italia deve affrontare tra il Referendum proposto dai Radicali sull'omicidio del consenziente e il Testo Unicio sul suicidio assistito alla Camera.
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Molti, dunque, i temi e i dettagli in ballo, che ovviamente hanno a che fare anche e soprattutto con il ruolo del medico e della medicina. Ne abbiamo parlato con Filippo Boscia, presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani, che sarà anche tra i relatori del convegno proprio sul tema dell’Eutanasia organizzato da Pro Vita & Famiglia per il prossimo 9 febbraio.
Dottor Boscia, qual è lo stato attuale delle cose?
«La rilevanza del bene vita, in quest’ultimo periodo, va un po’ sfilacciandosi, sotto il peso dell’esaltazione delle libertà individuali e dell’autodeterminazione: si rivendica ogni possibile diritto e fra questi anche quello che recita: “La vita è mia e la gestisco io”. C’è chi inizia a distinguere tra “vita” e “non vita”, tra “degna” e “non degna”, tra il “morire con dignità” e il “morire senza dignità”, etichettando così con giudizi soggettivi molte condizioni di vita fragile».
Questo a cosa porta?
«Porta alla situazione nella quale la cultura eutanasica viene facilmente alimentata da situazioni di sensibilità ferite, derivate dall'incapacità di amarci, ma anche di accettarci; sono in molti a non credere più nella vita, soprattutto quando si percepisce di non essere più accettati nella disabilità, nella malattia e in tante altre particolari situazioni. A chi voglia centrare il problema diciamo che ci vorrebbe un amore infinito per questa nostra umanità dolente e che occorrono strutture socio-sanitarie e familiari che dialoghino, ascoltino, prendano per mano creando relazioni di prossimità che aiutino ad oltrepassare il confine con serenità. Per quel che riguarda i medici, invece, occorrerebbe quella che mi piace definire la medicina dei 5 sensi (parola, sguardo, tocco, ascolto, gusto e odore di fraternità) sempre associati a condivisione, comprensione e compassione.
Si parla di “omicidio di consenziente” nel referendum proposta dai Radicali. In cosa consiste?
«L’omicidio del consenziente è un problema che si vuole affidare alla Medicina, andando a sconvolgere gli scopi perseguiti finora proprio dalla Medicina: ovvero la cura e il prendersi cura. Tra eutanasia e suicidio assistito non v’è sostanziale differenza, se non nelle modalità attuative, perché entrambi agevolano per volontà la morte. Certamente occorre mettere bene in luce la differenza tra “lasciar morire” e “far morire”, ma è proprio su tali questioni che si sta creando una grande confusione tra chi insiste di farla finita e chi insiste sul principio di indisponibilità della vita che va salvaguardato attraverso proporzionalità terapeutiche e cure che abbiano un attento sguardo sulla storia naturale della malattia. Lo scontro è aspro ma ci può essere una via di incontro, che potrebbe essere trovata nel condurre adeguate, efficaci, complete terapie del dolore e cure palliative, senza escludere apoditticamente le sedazioni palliative profonde, applicando, in modo universale e solidaristico, la legge 38/2010 contenente le “Disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”, senza che mai si determinino atti di abbandono, di allontanamento o di assenza delle cure».
Il ruolo della medicina?
«Innanzitutto chiariamo che la medicina non può sposare prospettive eutanasiche! Chi esercita la difficile arte medica, non può scegliere tra il far vivere o il far morire e il medico in questo non ha alternative: l’unica opzione che può esercitare è, sempre e comunque, per la vita e a favore della vita, perché è la sua coscienza che glielo richiede e la sua professione che lo obbliga a farlo. L’introduzione della depenalizzazione delle specifiche azioni eutanasiche nel nostro ordinamento giuridico non entusiasma i medici, anzi, si ritiene che essa possa compromettere le basi stesse della democrazia e del bene comune e alterare i principi di solidarietà e di giustizia da riservare alle persone più fragili. Insistiamo affinché lo Stato non giunga mai a negare forme di assistenza e tutela a malati cronici, anziani, disabili, malati di mente, ecc., avvalorando forme di eutanasia sociale o selezione dei fragili e dei deboli. I medici cattolici, inoltre, ritengono che l’intera problematica del fine vita con tutti i suoi aspetti umani, personali e familiari, etici e giuridici, politici e legislativi, rappresenti certamente un’opportunità di dialogo, di confronto, di perfezionamento assistenziale verso l’eubiosia (il contrario di eutanasia), cioè buona vita, vera sfida per un rinnovato umanesimo della cura, da riaffermare esaltando quel mirabile impegno personale e professionale, scientifico ed umano, che da sempre contraddistingue l’azione medica nella quotidiana lotta contro la malattia e la mai sufficientemente compresa dignità della vita».
Il 9 febbraio, a Roma, Pro Vita & Famiglia organizzerà un evento, proprio sul tema dell’eutanasia, Lei è tra i relatori principali, di cosa si parlerà? Ci anticipa qualcosa?
«Occorre ribadire che la tutela della vita e l’affiancamento di chi soffre è una battaglia di ragioni e di civiltà, che dovrebbe, perciò, interessare tutti, soprattutto chi porta nel nome l’ideale di una civiltà cattolica. E se a tutti chiediamo di riflettere se sia ragionevole scartare la vita, alle istituzioni rivolgiamo uno specifico pressante appello affinché la sostengano nei momenti più difficili attraverso cure palliative effettive e capillari nei territori italiani e con un’assistenza domiciliare ventiquattr’ore su ventiquattro».
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