In un momento in cui la vita nelle sue fasi più fragili – il suo inizio e la sua fine – è particolarmente minacciata, il mondo associativo pro life sta cercando un ricompattamento sui temi fondamentali. A tale scopo, lo scorso settembre, è stato riconfermato con atto notarile il Forum delle Associazioni Sociosanitarie, con l’adesione immediata di cinque soggetti: Associazione Medici Cattolici Italiani, Unione Cattolica Farmacisti Italiani, Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici, Movimento per la Vita e Associazione per la Pastorale della Salute. Più recentemente si sono uniti al progetto il Movimento Cristiano Lavoratori (come membro uditore) e l’Associazione Difendere la Vita con Maria, mentre altre adesioni sono in lista d’attesa.
Il Forum ha tra i suoi obiettivi la diffusione di una cultura della vita, in controtendenza con l’efficientismo che sta dilagando nella sanità attuale, per cui la salute diventa un mero business, l’alleanza medico-paziente viene pregiudicata e si diffonde una cultura eugenetica ed eutanasica che condiziona pesantemente tutti gli agenti del sistema sanitario. Gli strumenti principali per arginare questa deriva sono l’informazione e la formazione, rivolte in particolare agli studenti in medicina e ai giovani medici e infermieri, perché recuperino o riscoprano un approccio solidale, in grado di contrastare la cultura dello scarto.
Per conoscere da vicino gli obiettivi e i progetti del Forum, Pro Vita & Famiglia ne ha incontrato il presidente Aldo Bova, primario emerito di ortopedia all’ospedale San Gennaro di Napoli.
Professor Bova, c’è dunque bisogno di una riumanizzazione della medicina, per affrontare le sfide del momento?
«Proprio così, ci teniamo molto che questo discorso si sviluppi. Prendiamo atto che la medicina va sempre più tecnologizzandosi, la robotica sta entrando inesorabilmente nelle strutture sanitarie, la burocrazia è sempre più determinante nella cura dei pazienti. Tutto ciò porta sempre più a un allontanamento umano tra medico e paziente a cui si aggiunge la percezione che soltanto indagini come la risonanza magnetica o la tac possono mettere il medico nelle condizioni di fare la sua diagnosi. Tutto questo, però, non è vero. Allora c’è bisogno che i medici più anziani – che normalmente dispongono di una maggiore cultura umanistica e di una più spiccata sensibilità nel vedere il paziente come una persona, con la sua psiche e la sua storia umana – riescano a trasmettere il loro background culturale alle nuove generazioni di medici. Se i giovani medici recepiscono questa sfida, il loro rapporto con i pazienti e le loro prestazioni miglioreranno e renderanno più facile la guarigione dei pazienti stessi, facendo, oltretutto, risparmiare loro parecchi soldi. Un paziente va ascoltato e il medico deve entrare in empatia con lui, affinché insieme possano concordare la terapia migliore».
Che strumenti offrirete per andare verso questo cambio di paradigma?
«È un lavoro che va fatto principalmente nelle università e nelle facoltà mediche. Abbiamo già avviato un percorso di questo tipo con l’Università Luigi Vanvitelli di Caserta e ora stiamo cercando di riprodurre il modello anche in altri atenei italiani. L’Università Cattolica già segue questa impostazione ma io credo che, se anche altre università accetteranno questo discorso, la sanità italiana potrà soltanto migliorare».
Una grossa minaccia per la sanità pubblica che voi del Forum denunciate è la “salute diseguale”: curarsi sta diventando un lusso?
«Questo fenomeno è ormai documentato da statistiche e studi scientifici molto accurati. I più poveri e i più incolti vivono cinque anni di meno, rispetto ai più colti e più ricchi. Un gap che aumenta, se mettiamo a paragone le regioni del Sud con quelle del Nord. L’Istituto Nazionale Tumori Pascale di Napoli ha preso in esame 3200-3300 pazienti sottoposti a chemioterapia e ha rilevato che il 20-30% dei più poveri e meno colti, benché seguiti alla stessa maniera, non rispondono bene alle cure e muoiono più facilmente: un dato che andrebbe approfondito. Da parte nostra, come Forum, organizzeremo degli incontri scientifici per comprendere meglio questo tipo di fenomeno e riaffermare la giustizia sociale, intervenendo a livello territoriale, regionale e statale finché non si troveranno soluzioni per ridurre questo gap. A questo proposito, stiamo programmando un convegno ad Assisi per fine ottobre».
Parliamo di eutanasia: l’obiezione di coscienza è in pericolo?
«È sicuramente in pericolo già con la legislazione vigente [legge 219/17 su dichiarazioni anticipate di trattamento]. L’obiezione di coscienza è sacrosanta sia per l’aborto che per l’eutanasia. Nel fine vita, sicuramente non ci vuole l’accanimento terapeutico ma è essenziale che si stia a fianco del paziente, accompagnandolo alla morte nel modo migliore, mai favorendo la morte. Se però il paziente, in nome della sua autodeterminazione, vuole interrompere la sua vita, il medico dovrà rifiutare. È nel Dna del medico tutelare la vita».
Se, però, nell’eventuale legge chiesta dalla Corte Costituzionale entro settembre prossimo, l’obiezione di coscienza non fosse prevista, quale sarà il destino dei medici obiettori?
«Se si andasse allo scontro, auspico che un medico che crede in questi valori li rispetti fino in fondo, essendo disposto anche ad andare in galera. Le strutture sanitarie che venissero costrette ad applicare l’eutanasia, dovrebbero seguire la linea dell’intransigenza fino alle estreme conseguenze».
Lei parla della necessità di una “cultura dell’amore” come antidoto alla cultura della morte e dello scarto. Non è retorica, vero?
«Assolutamente no, anzi, è un fatto scientifico. La soluzione di fondo a questi problemi può sembrare utopia ma non lo è. Anche nella sanità dobbiamo diffondere una cultura dell’amore, l’unica che ci può aiutare e salvare. Se si porta avanti questo tipo di cultura, qualunque legge sull’eutanasia viene annullata con i fatti».
Luca Marcolivio