Il tema dell’eutanasia resterà per molto tempo al centro dei dibattiti politici e parlamentari, a causa di una divisione drastica tra chi crede nella vita sempre e comunque, e chi invece no. Il nostro Paese, in tal senso, dovrebbe guardare (e non prendere esempio) a ciò che insegna l’esperienza del Belgio.
Il piccolo regno, infatti, è stato il secondo paese al mondo ad aver pienamente legalizzato l’eutanasia, e questo è avvenuto nel maggio del 2002. I 20 anni trascorsi dalla promulgazione della legge – lo spazio di una generazione – permettono di verificare il mantenimento delle promesse dei politici e l’andamento generale di una normativa che ha fatto da apripista a leggi simili votate in molti altri paesi occidentali.
L’Istituto europeo di bioetica, ente privato che ha sede proprio a Bruxelles, ha appena pubblicato un articolato dossier, intitolato: “L’eutanasia 20 anni dopo. Per una vera valutazione della legge belga”.
L’Istituto esiste per difendere la vita umana, a prescindere dalla salute o dal grado di sviluppo. E il prestigio del suo Comitato scientifico (composto da decine di giuristi, medici e universitari) fa sì che esso venga regolarmente ascoltato, anche in pubbliche audizioni, da parlamenti, alte corti di giustizia e dagli stessi organi dell’Unione europea.
Il dossier mostra il fallimento pressoché totale della legge belga pro eutanasia, e questo è dimostrato in vari modi. La legge, approvata 20 anni fa tra mille polemiche, costituiva una eccezione al divieto di uccidere, incluso il consenziente. E questo, si disse, per pietà verso le sofferenze inutili e per evitare le “eutanasie clandestine”.
I critici dissero da subito che si sarebbe trattato di un piano inclinato. Soft all’inizio, ma poi tendente alla banalizzazione della morte. Come se la scelta di togliersi la vita fosse una scelta moralmente neutra.
Ed è esattamente quello che è accaduto. Secondo il dossier, infatti, se nel 2003, il primo anno di applicazione della legge, le persone uccise mediante eutanasia furono 235, nel 2010, giunsero a 953. Nel 2015, le persone soppresse furono 2022. E lo scorso anno, si è toccato il vertice di 2699 vittime. «Ovvero un decesso su 40 in Belgio».
Al di là del dato numerico, in questi 20 anni si sono allargate le maglie del permissivismo. Per esempio i pazienti uccisi tramite eutanasia, che non erano in pericolo di morte ravvicinata, «sono raddoppiati negli ultimi 10 anni». Quanto alla sofferenza, che in teoria sarebbe una delle cause della “dolce morte”, essa «è intesa in modo essenzialmente soggettivo». Così, un malato che avesse un dolore, sopprimibile con la medicina palliativa, avrebbe comunque diritto all’eutanasia.
Inoltre, negli ultimi anni, «varie decine di eutanasie sono state dichiarate», per ragioni solo psichiatriche, come «depressione e autismo». Non potrebbero essere trattate diversamente?
Altro problema causato dalla legge è il rispetto della coscienza del personale medico che sempre più spesso vuole tenersi alla larga da prassi che non cercano di curare il paziente. Eppure, secondo il dossier, una recente modifica della legge belga, «obbliga cliniche e ospedali ad accettare la pratica dell’eutanasia nelle loro sedi».
Senza neppure parlare dei tristissimi casi di “eutanasia dei minori” e della permanenza dell’eutanasia clandestina, il dossier conclude affermando che i 20 anni di applicazione della legge mostrano che non si sono risolti i problemi di salute della gente. La legge però «ha reso impossibile una politica di accompagnamento dei pazienti in fin di vita», favorendo perfino un assurdo «diritto al suicidio» rivendicato da alcuni.
Auguriamoci che il Belgio cestini al più presto la normativa e che il suo dramma incoraggi gli altri Paesi, come l’Italia, a respingere qualunque liberalizzazione.