03/06/2017

Eutanasia: dettagliata analisi della legge sulle DAT (6)

Siamo giunti alla sesta e ultima parte (le altre si possono trovare a partire da qui) dello studio fatto da Giacomo Rocchi (Comitato Verità e Vita) sul disegno di legge che mira a legalizzare l’eutanasia in Italia, approvato dalla Camera lo scorso 20 aprile e in attesa di essere discusso al Senato.

7.2. L’obiezione di coscienza.

Qualche commentatore ha ravvisato nella norma che abbiamo già commentato (art. 1, comma 6, secondo periodo: “Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrarie a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche cliniche assistenziali: a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”) il riconoscimento implicito dell’obiezione di coscienza per i medici di fronte a pratiche eutanasiche.
Il tema è certamente complesso e merita una trattazione ampia (nei limiti di chi scrive).

a) Una prima osservazione banale è che – se davvero la norma menzionata riconosce l’obiezione di coscienza – l’indicazione riguarda solo i medici e non tutti i sanitari e, tanto meno, tutti i soggetti coinvolti nell’uccisione del paziente che la legge permette.
Eppure, è evidente che anche gli infermieri possono essere coinvolti in pratiche eutanasiche: ad esempio, il decreto della Corte d’appello di Milano che autorizzò l’uccisione per fame e per sete di Eluana Englaro attribuì un “ruolo” proprio agli infermieri, quando prescrisse che “in accordo con il personale medico e paramedico che attualmente assiste o verrà chiamato ad assistere Eluana, occorrerà fare in modo che l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale con sondino naso – gastrico, la sospensione dell’erogazione di presidi medici collaterali (antibiotici o antinfiammatori ecc.) o di altre procedure di assistenza strumentale, avvengano, in hospice o altro luogo di ricovero confacente, ed eventualmente – se ciò sia opportuno ed indicato in fatto dalla miglior pratica della scienza medica – con perdurante somministrazione di quei soli presidi già attualmente utilizzati atti a prevenire o eliminare reazioni neuromuscolari paradosse (come sedativi o antiepilettici) e nel solo dosaggio funzionale a tale scopo, comunque con modalità tali da garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona (ad esempio anche con umidificazione frequente delle mucose, somministrazione di sostanze idonee ad eliminare l’eventuale disagio da carenza di liquidi, cura dell’igiene del corpo e dell’abbigliamento ecc.) durante il periodo in cui la sua vita si prolungherà dopo la sospensione del trattamento …”.
D’altro canto, molte pratiche eutanasiche sono semplici e possono essere eseguite anche da non medici, come dimostra l’esperienza di altri Paesi.

Anche i dirigenti degli ospedali o delle case di cura possono essere coinvolti nella decisione e nell’attuazione della pratica eutanasica legittimata dal progetto: ancora una volta, come dimenticare che – poiché l’uccisione di Eluana Englaro non poteva essere eseguita presso l’Istituto delle Suore dove era amorosamente accudita – l’equipe che doveva attuare la decisione di Beppino Englaro scelse una Casa di Cura che si era resa disponibile ad applicare il “protocollo” previsto? Non solo vi fu una risposta positiva da parte di quella Casa di Cura, ma evidentemente ve ne furono negative di altre strutture.
In definitiva, la norma si mostra insufficiente almeno sotto questo profilo.

b) Si deve, poi, osservare che la legge, per come è scritta, non può riconoscere l’obiezione di coscienza.
Ricordiamo che, in base al disegno normativo, uccidere o far morire un paziente è trattamento sanitario, anzi l’unico trattamento sanitario legittimo.
Di più: quando il soggetto morirà per mancata erogazione dei “trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza” (art. 1 comma 5) egli non sarà stato ucciso.

Dobbiamo capire a fondo la logica del legislatore che legalizza l’eutanasia che, forse, è diversa (sotto questo aspetto) di quella che legalizzò l’aborto nel 1978: mentre allora la legge non negava la realtà dell’atto abortivo – e quindi inevitabilmente riconosceva l’obiezione di coscienza dei sanitari – il legislatore odierno è passato oltre e pretende di nascondere (a se stesso e alla generalità dei cittadini) la realtà effettiva; che, cioè, le persone che moriranno in attuazione dei principi stabiliti dalla legge avrebbero potuto essere curate e non lo saranno state, cosicché la morte sarà conseguenza dell’omissione di terapie.

“Accettare la realtà ed attribuire alla realtà il giusto significato sono tappe necessarie per giungere a riconoscere la natura dell’atto medico, cioè il senso e il fondamento della medicina.
Infatti, o la medicina è definita da un significato intrinseco che rende coerenti i gesti compiuti di fronte alla malattia, oppure la medicina non ha tale significato e, dunque, esistono solo singole azioni tecniche compiute da persone che (per pura convenzione) chiamiamo medici. Ma in questa seconda ipotesi, la medicina non esiste più, è letteralmente finita” (Mario Palmaro, Eutanasia: diritto o delitto?, Giappichelli, Torino, 2012, 64 e ss.).
Questo brano di Mario Palmaro fotografa bene il “medico” che il legislatore ha in mente, che non “cura” e nemmeno “uccide”, ma compie solo una serie di atti; per questo medico l’obiezione di coscienza non ha senso. Come abbiamo detto al paragrafo precedente, il legislatore vuole che tutti i medici corrispondano a questo “modello”.

Ma, come ricorda sempre Palmaro, “anche per il diritto, come per la medicina, valgono le medesime considerazioni metodologiche. Anche il Diritto può: 1. Accettare la realtà; 2. Interrogarsi sul senso di questa realtà. 3. Rifiutare la realtà e truccare le carte. 4. Riconoscere la natura dell’atto medico (cioè, riconoscere un senso ed un fondamento dell’atto medico. (…) Il Diritto è «giusto» quando si smarca da qualunque tentazione ideologica e prende in considerazione la realtà come veramente è“. Ma “ovviamente, il Diritto può scegliere di rifiutare la realtà e di truccare le carte, usando la norma come paravento dietro al quale nascondere la verità”.
Ecco l’operazione che viene compiuta da questo progetto: la realtà viene nascosta, perché le carte vengono truccate.

Questo è il reale significato della previsione secondo cui il medico che rispetta la volontà del paziente di rifiutare o rinunciare al trattamento sanitario salvavita “è esente da responsabilità civile o penale”: non si tratta di una “scriminante”, che rende legittima una condotta che costituirebbe reato ed illecito civile per il caso specifico; si tratta, piuttosto, di un restringimento dell’ipotesi di reato, per cui l’uccisione di una persona da parte di un medico che rispetta il suo rifiuto del trattamento non costituisce omicidio.
Mario Riccio e l’equipe che ha determinato la morte di Eluana Englaro sono stati prosciolti dall’accusa di omicidio in forza di scriminanti: adempimento del dovere per il primo, esercizio del diritto per i componenti della seconda.
I medici e i sanitari che, in futuro, opereranno con le stesse modalità non saranno nemmeno indagati per omicidio, perché, appunto, la morte dei loro pazienti non potrà essere considerata una “uccisione” dei pazienti stessi (anche se, in natura, lo sarà).

Lo Stato che approva leggi che prescindono dalla realtà naturale delle cose e pretendono di ridisegnarla è inevitabilmente intollerante nei confronti di chi tale realtà naturale riconosce e richiama: se riconoscesse espressamente l’obiezione di coscienza, il Parlamento ammetterebbe che le norme approvate rendono legale l’uccisione volontaria di pazienti.

c) Il problema dell’obiezione di coscienza, tuttavia, è reso ancora più complesso dalla diversa
natura degli atti che determinano la morte del paziente.
Come insegna l’esperienza e come si ricava dal testo che abbiamo commentato, in conseguenza del rifiuto del paziente o dei rappresentanti legali dell’incapace o del minore, il medico (o il sanitario) sarà obbligato talvolta ad un comportamento positivo, altre volte ad un comportamento negativo, avendo davanti a sé l’obbligo di astenersi dall’erogare trattamenti salvavita.
Nell’aborto è sempre necessaria una condotta positiva che l’obiettore si rifiuta di compiere osservando il divieto imposto dalla sua coscienza; la legge deve permettergli (come fa l’art. 9 della legge 194 del 1978) di non compiere quella azione.
Invece, la proposta di legge contempla più ipotesi: il divieto di iniziare un trattamento sanitario, il divieto di proseguire il trattamento (art. 1, comma 1) e l’obbligo di interrompere il trattamento a seguito della revoca del consenso prestato (art. 1, comma 5).
Facciamo qualche ipotesi per comprendere meglio la problematica (mi scuso in anticipo delle imprecisioni cui posso incorrere quanto alle tematiche mediche.).
a) Divieto di iniziare un trattamento. In conseguenza del rifiuto dei genitori di trattamenti nei confronti del neonato disabile, sorge il divieto di porlo nell’incubatrice ed attivare tutte le tecniche di rianimazione neonatale; se il paziente malato di tumore od i genitori di un minore rifiutano l’ennesimo ciclo di chemioterapia, i medici non possono erogarlo; se una persona rifiuta un intervento chirurgico che potrebbe salvarle la vita, i medici non possono procedere (anni fa emerse il caso di una donna che rifiutò l’amputazione di un arto colpito da cancrena e che morì uccisa da
quella malattia.); se il soggetto (o il suo rappresentante legale) rifiuta l’attivazione della nutrizione artificiale (la PEG presuppone un piccolo intervento) o della ventilazione artificiale (che richiede l’inserimento di una cannula, eventualmente mediante tracheotomia), i medici non potranno attivarle.
b) Divieto di proseguire un trattamento. Il caso di Eluana Englaro, nell’ottica del legislatore (che considera la nutrizione od idratazione artificiale trattamento sanitario) integra questa ipotesi, perché nei confronti della stessa non venne proseguito il “trattamento”, determinandone la morte; casi simili possono essere ipotizzati per l’interruzione di una terapia farmacologica costante.
c) Obbligo di interrompere il trattamento. Il caso Welby è esemplare: egli aveva dato il consenso all’inizio della ventilazione artificiale, che proseguiva da tempo. La revoca del consenso a tale trattamento permise a Mario Riccio di spegnere il macchinario e provocarne la morte, resa meno dolorosa dalle ulteriori pratiche che mise in atto.

d) Quando la legge indica un obbligo positivo (appunto: comportarsi come Mario Riccio), non è difficile proclamare che nessuno può essere obbligato ad uccidere un uomo, equiparando quindi – e nella realtà naturale l’equiparazione è esatta – la posizione dell’interessato a quella del medico che dovrebbe essere obbligato ad eseguire un aborto od a quella del dipendente pubblico che dovrebbe essere obbligato ad eseguire una condanna a morte.

Se, invece, l’obbligo è quello di astenersi da determinate condotte, il quadro è meno chiaro.
Nel documento “Obiezione di coscienza e bioetica” del 12 luglio 2012 (Reperibile in: presidenza.governo.it/bioetica/pdf/Obiezione_coscienza.pdf), il Comitato Nazionale di Bioetica, osservando che “La sfida del riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza consiste proprio nell’evitare di incrinare il principio di legalità e nel far convivere la legittimità dell’obiezione, specialmente quando inerisce a valori costituzionali fondamentali, con la tutela di chi è titolare di diritti legalmente previsti”, argomentava: “Invero, solitamente si fa riferimento all’obiezione di coscienza relativa a un obbligo di fare, la quale implica un’astensione da parte dell’obiettore, ma vi è anche chi prospetta l’ammissibilità dell’obiezione di coscienza all’obbligo di non fare, la quale implica un comportamento commissivo dell’obiettore e quindi la realizzazione del fatto eventualmente vietato dalla legge. Mentre l’astensione permette che altri possa sostituirsi all’obiettore e fare ciò che lui non è disposto a fare, un comportamento attivo contra legem non dà spazio ad una sostituzione che salvaguardi l’applicazione della legge stessa”.
Il documento concludeva: “Ne deriva che se si vuole concepire l’obiezione di coscienza come compatibile col principio di legalità, l’obiezione di coscienza agli obblighi di non fare deve essere esclusa proprio perché l’inadempimento dell’obbligo coincide con la definitiva violazione del precetto legale senza possibilità di organizzare un servizio sostitutivo che permetta di salvaguardare il principio di legalità”.
Grégor Puppink (Grégor Puppink, Objection de conscience et droits de l’homme, ECLJ, Strasbourg, 2016, 59 ss. Traduzione a cura di chi scrive) distingue tra manifestazioni positive e negative della libertà di coscienza e nega una simmetria nella protezione delle due manifestazioni: “Vietare ad una persona di agire secondo la sua coscienza, significa impedirgli di realizzare in tutto o in parte un “bene” che la sua coscienza raccomanda. D’altro canto, costringere qualcuno ad agire contro la sua coscienza, significa vincolarlo a commettere un “male”, un’azione che la sua coscienza disapprova. In altri termini, la restrizione apportata ad una manifestazione positiva riguarda l’attuazione della convinzione, limitandola, per esempio, a certi luoghi e tempi. Al contrario, obbligare qualcuno a fare il male non influenza la realizzazione della convinzione, ma la convinzione medesima. Un bene può essere realizzato parzialmente, ma un male è sempre assoluto, anche se può essere ridotto. Il male è una questione di principio, il bene è una questione di misura” (…) “Solo una manifestazione positiva può essere oggetto di restrizioni o limitazioni, ma una manifestazione negativa (un rifiuto di agire) non può materialmente essere oggetto di restrizioni o limitazioni, mai può essere oggetto di forzatura o sanzionata”.

Scendiamo ai casi pratici: le Suore che accudivano Eluana Englaro non furono moralmente responsabili della sua morte per non avere impedito che ella fosse prelevata e portata in altro luogo; un infermiere che lavorava a Villa La Quiete di Udine senza far parte dell’equipe “dedicata” alla Englaro, non fu responsabile della sua morte per non essere entrato nella sua stanza riattivando la nutrizione e idratazione artificiale; i medici che non erogano il nuovo ciclo di chemioterapia o non intraprendono l’operazione chirurgica per mancanza di consenso non sono responsabili della morte del soggetto (3); il medico curante di Piergiorgio Welby, che si era rifiutato di fare quello che poi Mario Riccio fece, non fu responsabile della morte procurata di Welby e così via.

e) Ecco che – secondo la mia riflessione – una legge ingiusta come quella che si sta approvando, pur rimanendo integralmente iniqua, per rispettare il diritto costituzionale all’obiezione di coscienza di tutte le persone coinvolte (4) dovrebbe configurare la disciplina secondo queste direttive:
– garantire espressamente l’obiezione di coscienza rispetto a condotte positive che determinano
la morte del paziente in conseguenza della omessa erogazione delle terapie salvavita o della loro interruzione: nessuno può essere obbligato ad uccidere un’altra persona, né a collaborare a tale uccisione.
– garantire a tutti i soggetti di non essere in alcun modo coinvolti nelle pratiche, anche omissive, che porteranno alla morte il paziente.

Il modello, insomma, non può che essere quella della sostituzione del medico e del sanitario. Il medico di Welby venne sostituito da Mario Riccio in conseguenza del suo rifiuto ad uccidere il paziente; nessun infermiere fu costretto (per quanto so) a partecipare all’uccisione di Eluana Englaro e così via.
L’ultimo atto che il medico rispettoso della sua coscienza potrà essere obbligato a fare sarà ciò che è descritto dall’art. 1, comma 5: “Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di una tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi di servizi di assistenza psicologica”.
Ma se l’opera di convincimento non avrà successo il medico dovrà avere il diritto (anche se non l’obbligo) di allontanarsi da colui che in un modo o nell’altro verrà ucciso e di tenersi distante da azioni od omissioni che la sua coscienza riprova e che negano l’essenza dell’arte medica.
Certo: non potrà più intervenire per salvare la vita del paziente; non potrà boicottare le azioni (od omissioni) in corso che lo stanno portando ad una morte procurata (a meno che non sia possibile promuovere azioni giudiziarie); ma sarà interamente garantito nella sua libertà di coscienza (5).

f) La disciplina adottata dal progetto è decisamente ingiusta anche sotto questo profilo.
Si è già detto che la norma non garantisce i non medici: quindi costringerebbe, ad esempio, gli infermieri ad assistere il medico che interrompe la ventilazione artificiale del paziente od a compiere quelle azioni descritte nel decreto della Corte d’appello di Milano per “assistere” la persona che sta morendo di sete.

Inoltre la norma, anche per i medici, è contraddittoria: quali sono i trattamenti sanitari “contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche-assistenziali” che il medico avrebbe diritto di rifiutare, se la stessa legge permette la sospensione di qualunque trattamento sanitario, anche se salvavita? Per la legge “buona pratica clinica- assistenziale” è lasciar morire un paziente che lo ha chiesto!
Non vi è dubbio che l’art. 17 del Codice deontologico dei medici prescrive che “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte”, ma è curioso che una legge dello Stato si richiami ad una regolamentazione professionale che, fra l’altro, può essere cambiata (6): quindi la norma non garantisce affatto il medico.

Non basta: l’art. 2, comma 1 del progetto, che abbiamo già menzionato, afferma che “il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico”. Quindi, il medico deve continuare ad operare per il paziente anche se ha il divieto di curarlo!
Applichiamo questa regolamentazione al caso Englaro: i medici non potranno più nutrire e idratare la paziente, ma dovranno provvedere a tutte le pratiche dirette a ridurne il “disagio”; anche i medici “obiettori”, quindi, saranno “inseriti” nelle procedure eutanasiche e non potranno tenersene lontani.

Infine, è palesemente iniqua la previsione secondo cui “Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale” (art. 1 comma 9).
La norma dimostra l’ideologia (anzi: l’odio ideologico) che muove il legislatore del 2017: nel 1978 il Parlamento, nel legalizzare l’aborto, previde che gli interventi potessero essere effettuati presso ospedali e case di cura private, sempre che essi ne facessero richiesta (art. 8, commi 2 e 3 legge 194 del 1978); ora, invece, si stabilisce che nessun ospedale può sottrarsi alle uccisioni permesse dalla legge: proprio perché, come si è detto, esse non devono essere considerate uccisioni, ma trattamenti sanitari, anzi i migliori e gli unici possibili trattamenti sanitari.

La previsione, comunque, coinvolge il tema dell’obiezione di coscienza dei proprietari delle strutture private e dei dirigenti delle strutture pubbliche e private, che dovrebbero costringere i sanitari a procedere all’eutanasia o ad eseguire gli ordini derivanti dalle DAT e addirittura assumere medici ad hoc per gli atti che i loro colleghi si rifiuteranno di porre in essere: tutti comportamenti positivi e non omissivi; viene da chiedersi se la “formazione del personale” dovrà comprendere anche le tecniche per far morire per soffocamento il paziente senza farlo soffrire (7)…

In definitiva, la regolamentazione è palesemente iniqua e illegittima costituzionalmente.

8. Le ulteriori conseguenze della legge.

Se venisse approvata una legislazione come quella commentata, quali sarebbero le evoluzioni prevedibili?
L’esperienza di tanti paesi è eloquente.

In primo luogo potrebbe affermarsi il principio (o la prassi) secondo cui l’uccidere mediante interruzione delle terapie non sia un atto esclusivamente riservato al medico, ben potendo eseguirlo anche un infermiere: si ricordi che gli infermieri sono stati espressamente coinvolti dal decreto della Corte d’appello di Milano nell’uccisione di Eluana Englaro e, d’altro canto, alcune attività potrebbero essere semplici.

Forte sarà, poi, la spinta verso l’uccisione diretta dei pazienti.
Diciamolo brutalmente: invece di riservarle tre giorni di agonia, non sarebbe stata una soluzione migliore per Eluana Englaro una iniezione letale?

Dal punto di vista normativo, sarebbe difficile giungere a questo punto: la presenza di medici e il divieto di eutanasia attiva sono funzionali alla finzione che le uccisioni che saranno compiute abbiano la natura di trattamenti sanitari; una finzione che, del resto, è adottata anche per l’aborto legale (si finge che l’intervento abortivo sia eseguito per il pericolo per la salute della donna) e per la fecondazione extracorporea (non a caso definita “medicalmente assistita” dalla legge 40 del 2004, nonostante le tecniche non curino nessuna malattia e, al contrario, determino la morte di innumerevoli embrioni).
Tuttavia la prassi potrebbe ben presto superare la realtà normativa che – secondo lo spirito odierno – dovrebbe allora adeguarsi.

Infine, è evidente che la regolamentazione svuoterà dall’interno il divieto di omicidio del consenziente e di aiuto al suicidio presenti nel codice penale.
Del resto, il concetto di “salute” come “completo benessere fisico-psichico” che ben conosciamo permette di ricomprendere nell’ambito sanitario situazioni in cui la salute non entra per nulla.
Arriveremo ad una depenalizzazione di questi reati o, quanto meno, ad una riduzione delle pene edittali?

Giacomo Rocchi


3 Naturalmente l’affermazione può essere discussa sotto il profilo morale, potendosi ipotizzare la possibilità per il sanitario di obbligare il paziente alla terapia salvavita che rifiuta; tuttavia, come osserva il Comitato Nazionale di Bioetica, lo Stato che approva una legge come quella che stiamo commentando, inevitabilmente vieta ed impedisce azioni positive che alcuni soggetti potrebbero ritenere moralmente obbligatorie. I tentativi – legittimi e moralmente doverosi – di salvare la vita di Eluana Englaro sono stati fisicamente impediti e ciò è stato coerente con l’autorizzazione che i giudici avevano rilasciato.
4 Comprendo il paradosso: una legge ingiusta può garantire dei diritti di natura inferiore a quelli che viola? L’esperienza della legge sull’aborto dimostra che può farlo (può, cioè, violare il diritto alla vita dei bambini ma garantire la libertà di coscienza dei sanitari), ma che la sua attuazione negli anni rende sempre più difficile mantenere questo paradosso, come dimostrano gli attacchi all’obiezione di coscienza garantita dalla legge 194. In effetti, la negazione del diritto alla vita degli innocenti, contraddicendo in radice la ragione stessa d’essere di uno Stato, soprattutto se democratico, lo conduce al totalitarismo.

5 Si ricordi che quanto scrivo non riguarda il caso tutto diverso dell’assistenza ai morenti, del divieto di accanimento terapeutico, dell’esperienza degli hospice: campo in cui la morte è imminente e inevitabile a prescindere da una decisione del paziente e il ruolo dei sanitari è quella di garantire al meglio – omettendo ogni terapia o accertamento inutile e erogando terapie contro il dolore e palliative – l’ultimo periodo di vita del morente.
6 Ricordiamo che il Codice Deontologico recentemente è stato oggetto di modifiche di evidente tenore politico-ideologico, dirette a ridurre l’autonomia del medico; ricordiamo ancora che Mario Riccio non ebbe alcuna sanzione disciplinare benché la sua condotta professionale oggettivamente corrispondesse a quanto descritto dall’art. 17 del Codice.

7 Ripensando a questo ultima frase, che voleva essere sarcastica, credo che, purtroppo, la risposta dei proponenti la legge sarà: “assolutamente sì!”. Ricordiamo che la legge sull’aborto approvata dal governo Zapatero prevedeva come obbligatoria per gli studenti di medicina la pratica (non la teoria) delle tecniche abortive.


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