Il pronunciamento finale della Corte Costituzionale sul referendum per la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente (art. 579 del Codice Penale) è la dimostrazione dell’abisso che sussiste tra realtà giuridica e propaganda. A svelare in esclusiva a Pro Vita & Famiglia il “dietro le quinte” di martedì scorso è Tommaso Politi, avvocato che per Pro Vita & Famiglia ha argomentato "ad opponendum" al referendum proposto dai Radicali. Come spiegato dall’avvocato Politi, il quesito era assolutamente inammissibile, in quanto non avrebbe semplicemente introdotto l’omicidio del consenziente, ma sarebbe andato ad eliminare qualunque forma di tutela e salvaguardia del bene della vita.
Avvocato Politi, come si è svolta l’audizione presso la Corte Costituzionale?
«Pro Vita & Famiglia è stata chiamata per prima a esporre le proprie memorie ai Giudici della Consulta. Questo anche per effetto di un ordine interno che avevamo concordato con gli altri colleghi che intervenivano ad opponendum. La camera di consiglio sull’omicidio del consenziente è stata quella più partecipata e con più interventi, sia ad adiuvandum, sia ad opponendum. I nostri interventi sono stati pacati, puntuali e continenti. Nessuno di noi ha fatto ricorso a immagini da Grand Guignol o esempi esasperati. Siamo stati tutti “sul pezzo”, molto tecnici. Qualcuno si sarebbe aspettato in qualche modo il contrario, invece c’è stata più enfasi dall’altra parte. Agli argomenti tecnici che abbiamo portato effettivamente c’era poco da replicare, erano veramente inoppugnabili. Forse per questa oggettiva difficoltà qualche intervento a sostegno del “sì” ha ripiegato verso argomenti a mio avviso più enfatici che decisivi: richiami ad una decisione “non giuridica ma di civiltà” o evocazioni del “popolo sovrano”. Si è trattato, però, complessivamente, di una discussione di alto livello che ci ha impegnati tutti».
Che argomentazioni avete presentato voi di Pro Vita & Famiglia?
«Una cosa vorrei fosse chiara: mentre fuori si parlava a sproposito di eutanasia legale, dentro gli stessi proponenti avevano difficoltà a confutare che per raggiungere il loro obiettivo, che era quello di sradicare un albero, di fatto proponevano di abbattere tutta la foresta. Davanti alla Corte Costituzionale non si poteva fare finta di niente, non si poteva andare avanti a suon di slogan come “liberi fino alla fine” o “eutanasia legale”, che non corrispondono minimamente alla realtà giuridica del quesito. Il nostro fronte argomentava sul fatto che ci trovavamo di fronte a un oggetto lontano sideralmente rispetto all’omicidio pietistico, alle condizioni di fine vita, ai mali incurabili, alle sofferenze intollerabili: a tutti i casi limite che, del resto, sono stati oggetto della sentenza Cappato. Qui eravamo davvero su un altro livello, arrivavamo automaticamente al piano del diciottenne che decide di togliersi la vita per una delusione affettiva. La norma sull’omicidio del consenziente è neutra rispetto ai motivi dell’azione; non dice: “chiunque cagioni la morte di un uomo nei casi A, B, C e D…”. Il riferimento è a 360 gradi, all’uomo perfettamente sano… La norma è fatta per punire meno gravemente rispetto all’omicidio volontario ma comunque per punire, una serie di casi, la stragrande maggioranza dei quali non c’entrano niente con l’eutanasia, né con eventuali patologie. Di fronte a questa evidenza, si è tentato anche di replicare che la “normativa di risulta” sarebbe legata ai principi della sentenza 242/2019, per cui sarebbe applicata l’eutanasia attiva solo dove permessa quella passiva. Ma questa è una “magia giuridica” insostenibile: chiunque abbia fatto un esame di diritto penale sa che quei discorsi si potevano fare in televisione ma non certo davanti alla Corte Costituzionale. Noi abbiamo parlato proprio di questo: i tentativi tranquillizzanti di fronte all’opinione pubblica di rappresentare un allineamento alla sentenza 242/2019 erano qualcosa di giuridicamente insostenibile e privo di qualunque fondamento. Il diritto penale è tassativo e non ammette il “ricorso all’analogia”: se manca una norma per punire, non posso fare riferimento a un’altra norma simile. Non posso far rientrare dalla finestra dell’ “interpretazione” una punibilità che ho appena abrogato. Questo non è assolutamente sostenibile dal punto di vista penale. Di fatto questa norma referendaria andava a eliminare qualunque tipo di tutela e di salvaguardia del bene della vita anche di fronte a situazioni temporanee e reversibili, come uno scoramento o un mal di vivere, o la povertà o la solitudine. La norma che si andava ad abrogare non tiene conto né delle ragioni della vittima, né di chi ti somministra la morte. Su questo ci siamo confrontati e abbiamo convenuto che non ci trovavamo davanti al classico “piano inclinato” ma a un vero e proprio precipizio, un baratro che aveva poco o nulla di riferibile all’eutanasia».
La decisione della Corte rimarrà circoscritta o potrà condizionare altre sentenze future?
«Bisognerà innanzitutto leggere la decisione della Corte. La nota informativa, intanto, ci dice che è stata accolta sotto il profilo più sostanziale: l’incompatibilità di questa abrogazione con quel “minimo di tutela del bene vita” rispetto a situazioni di fragilità. È stato questo il motivo per cui abbiamo agito in via principale. Nel solco di un insegnamento che ha avuto delle oscillazioni ma che non ha mai ceduto come alcuni avrebbero voluto, la Corte Costituzionale afferma che il la vita altrui non è può essere soppressa “senza se e senza ma”, col solo consenso della vittima. Il nostro ordinamento non è indifferente alle scelte che può fare il singolo, di fronte alle quali si dovrebbe creare un obbligo per gli altri. Non siamo di fronte a uno scenario per cui chiunque, per qualunque motivo, voglia morire, possa avere a sua disposizione un altro che gli somministri la morte. La Corte Costituzionale ribadisce che l’ordinamento non può arrivare al limite estremo di rimanere indifferente a qualunque situazione di difficoltà o di scoramento che possa determinare che qualcuno dei nostri consociati a dire: “voglio morire e qualcuno mi deve somministrare la morte”. Se il referendum fosse passato, saremmo stati il primo paese al mondo ad avere una norma di questo tipo. Nemmeno in Olanda c’è una norma del genere. Mi aspetto che le linee della sentenza in tema di tutela “minima”, costituzionalmente necessaria della vita saranno comunque quelle della sentenza del 2019. Bisognerà anche capire se la Consulta si vorrà fermare ai motivi di inammissibilità o fare una porzione suppletiva di motivazione per spingere il Parlamento in una direzione piuttosto che in un’altra».
Alla Camera è attualmente in discussione il ddl sul suicidio assistito. Premesso che si tratta di una materia diversa rispetto all’oggetto referendario, ritiene che la nuova sentenza della Consulta potrà orientare il dibattito parlamentare?
«Molto dipenderà da come i giudici intenderanno impostare questa dichiarazione di inammissibilità. Se rimarranno sui temi più cogenti e faranno una pronuncia asciutta, in Parlamento ognuno ribadirà le proprie posizioni. Nel caso in cui la Corte emetterà una sentenza più incisiva non credo che il Parlamento resterà insensibile. Fermo restando che le sentenze si prestano sempre ad essere interpretate in un senso o nell’altro. Quanto più la pronuncia della Corte entrerà nella dinamica della doverosità di intervenire sul fine vita, tanto più offrirà un’indicazione per il Parlamento. Che tipo di sentenza sarà, però, non sono in grado di prevederlo».