Il National Council on Disability (NCD) di Washington ha recentemente pubblicato una dettagliata relazione sui rischi che corrono i disabili a causa della legalizzazione di eutanasia e suicidio assistito.
Si parla tanto, infatti, della presenza, nelle leggi sul fine vita, di disposizioni volte a salvaguardare i pazienti da eventuali abusi, salvaguardia del tutto ridicola se, in altri casi, permette che delle persone vengano spinte al suicidio.
Ma concentriamoci sul famosissimo “diritto all’autodeterminazione”, in nome del quale si vuol dare la morte a chi la richiede. Esso, infatti, è il primo ad essere ucciso da questa pratica. Come? Un articolo di National Right to Life riporta alcuni dei casi presentati dalla relazione del NCD, mostrando come in ciascuno di essi il paziente non sia mai realmente libero di scegliere.
Ciò accade, ad esempio, quando le assicurazioni si rifiutano di coprire i costi delle cure, mentre si offrono di sovvenzionare quelli dei farmaci letali. Se si è in difficoltà economiche, che fare? Non si è, forse, spinti in un senso ed ostacolati nell’altro?
Altri fattori di rischio sono la possibilità di diagnosi errate, che scoraggiano il paziente al punto da indurlo al suicidio. Ma anche la depressione, l’esistenza di leggi secondo cui, nella propria condizione, vivere non abbia più senso, il sentirsi gravosi per chi si ha a fianco e molto altro ancora.
Insomma, quello che si apre di fronte agli stati che hanno legalizzato queste pratiche è un vero e proprio baratro, da cui chi entra non può mai più uscire. Perché dalla morte non si trona indietro. Pertanto, che sia permesso o no dalla legge, spingere a ciò una persona non sarà mai un atto umano di compassione, ma un male profondo.
di Luca Scalise