C’è una maggioranza silenziosa di medici italiani che continua a credere nella cura del malato grave, fino alla sua morte naturale. Il nucleo centrale della questione rimane sempre la fiducia tra medico, da un lato, paziente e familiari dall’altro: se questa alleanza è solida, il diritto alla vita non sarà mai messo in discussione. Fondamentale è anche sgombrare il campo da un equivoco: vi sono molti pazienti le cui condizioni richiedono molte cure ma che non possono essere assolutamente definiti “terminali”. L’eugenetica che silenziosamente si sta insinuando nei sistemi sanitari nazionali – compreso quello italiano, dove in genere l’attenzione umana al paziente è encomiabile – ha come prime vittime i disabili.
«L’azione discriminatoria nei confronti del paziente disabile viene attestata dal fatto che viene sospesa l’alimentazione non perché si è aggravata la malattia ma solo perché disabile», conferma la dottoressa Matilde Leonardi, direttore del Centro ricerche sul coma, dell’Istituto neurologico Besta di Milano, intervistata da Avvenire. «L’Italia dovrebbe chiamarsi fuori da ragionamenti che non appartengono alla nostra cultura. Chi invece vuole sospendere i trattamenti lo fa per pregiudizi ideologici verso i disabili».
Avvenire riporta quindi le testimonianze di altri medici, come Rita Formisano, direttore dell’Unità neuroriabilitazione e post-coma della Fondazione Santa Lucia di Roma, che racconta: «Nella mia esperienza di 35 anni non è mai capitato che un familiare mi chiedesse di interrompere idratazione e nutrizione. Al contrario, purtroppo», puntualizza la dottoressa Formisano, «non è raro che ci siano rimpianti o rivendicazioni da parte dei familiari nei pochi casi in cui non siamo riusciti ad aiutare questi pazienti».
C’è chi, come Lucia Lucca, responsabile dell’Unità di risveglio dell’Istituto Sant’Anna di Crotone, suggerisce di incentivare l’«assistenza a domicilio» per quei pazienti che «grazie alle nuove capacità di rianimazione», riescono a sopravvivere per anni in stato vegetativo o di coma vigile. «Come società dovremmo farcene tutti carico», afferma la dottoressa Lucca.
Secondo Francesco Napolitano, vicepresidente della Federazione nazionale associazioni trauma cranico (Fnatc) e presidente dell’associazione Risveglio, nelle situazioni di stato vegetativo o di minima coscienza «certamente non c’è alcuna ragione né clinica né etica che possa giustificare di porre fine a questa vita» ma soltanto «volontà dettate da un’ideologia». Molti di questi pazienti, di cui si vorrebbe mettere fine alla vita, infatti, potrebbero avere «ancora tanti anni davanti, in una situazione la cui evoluzione è imprevedibile».
Le persone con gravi lesioni cerebrali, quasi sempre, reagiscono agli stimoli neurologici e, spesso, sono in grado di comunicare. Costoro, spiega Giovanni Battista Guizzetti, responsabile del reparto Stati vegetativi del Centro don Orione di Bergamo, «non hanno bisogno di alcun supporto tecnologico» ma solo «di relazione di cura fatta di alimentazione, igiene, vestizione». Ve ne sono tanti che sopravvivono in queste condizioni per molti anni, grazie all’assistenza del personale medico e all’affetto dei familiari. «In 20 anni di esperienza in questa struttura non è mai venuto nessuno a chiedere la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione per loro», ha confidato il dottor Guizzetti.
Luca Marcolivio