Siamo quasi alla vigilia di un vero e proprio eccidio: la Nuova Zelanda sta per aprire le porte all’eutanasia. «Ieri sono stati diffusi i risultati di un referendum sull’eutanasia tenuto in Nuova Zelanda il 17 ottobre, insieme alle elezioni politiche vinte dalla prima ministra Jacinda Ardern. Il 65,87 per cento dei votanti ha approvato l’introduzione di una legge che renderà legale l’eutanasia – cioè la morte assistita in caso di gravissime condizioni di salute – a partire dal 7 novembre», leggiamo su Il Post. Tra i più contrari a tale approvazione vi erano le associazioni per la tutela dei disabili.
Potranno accedere all’eutanasia i malati terminali maggiorenni con un’aspettativa di vita inferiore ai sei mesi, che presentano «un significativo declino fisico» e «sofferenze non sopportabili che non possono essere lenite». E come si potranno verificare questi requisiti? Su che scala? Chi ne darà certezza e in base a cosa?
Poi dovrebbero essere in grado di prendere una «decisione informata», dicono. Che “decisione” libera può prendere una persona nell’abisso della sua sofferenza, se nessuno combatte per la sua vita, mentre per la sua morte sono tutti favorevoli e disponibili?
Tanti potrebbero sentirsi dire ciò che i medici consigliarono alla modella tetraplegica neozelandese Claire Freeman. Entrata in depressione, dopo l’incidente stradale che la rese tetraplegica, tentò quattro volte il suicidio. «Stremata sulla sua sedia a rotelle, davanti a uno psichiatra e uno psicologo, disse: “Voi non potete capire quanto sia difficile avere una disabilità come la mia: ho tanti e tali dolori, voglio farla finita. Sto pensando al suicidio assistito”. Secca la risposta degli esperti: “Potrebbe essere una buona soluzione per te”. I medici le consigliarono di andare in Svizzera a farsi uccidere», racconta un articolo di Tempi.
Una volta che si rese conto di quanto fosse falsa la ostentata “compassione” dei promotori dell’eutanasia, la modella ebbe a dire: «È sconvolgente come si sono comportati. Avevo appena tentato di suicidarmi e loro, guardandomi, vedevano solo la mia disabilità. […] Loro mi hanno dato la possibilità di scegliere, è vero, e nello stesso istante in cui mi hanno offerto questa possibilità hanno svalutato la mia vita. Ritenevano infatti una vita disabile non degna di essere vissuta».
Claire sarebbe morta, se non si fosse resa conto dell’inganno. L’avrebbero aiutata a togliersi di mezzo, o peggio ancora le avrebbero proposto di farsi fuori, come se fosse nient’altro che un peso inutile. Una società che tratta i sofferenti come “impicci” di cui liberarsi, che li fa sentire quasi in obbligo di togliere il disturbo, che non li rispetta come persone, non è evoluta, non è civile, non è umana, affatto.