L’eutanasia, con cui viene reso disponibile e regolamentabile un bene come la vita umana, rischia di alimentare nella nostra società un delirio di onnipotenza assoluto che arriva fino alla pretesa di decidere chi merita di vivere e chi merita di morire. È un argomento su cui si sono espressi diversi pontefici. Dopo le ultime parole di Papa Francesco qualche giorno fa, anche i suoi predecessori ne hanno parlato in passato.
Ricordiamo le dichiarazioni chiare e incontrovertibili di Giovanni Paolo II nella lettera agli anziani del 1° ottobre 1999: «Il concetto di eutanasia, purtroppo, è venuto perdendo, in questi anni, per molte persone, quella connotazione di orrore che naturalmente suscita negli animi sensibili al rispetto della vita. Certo, può accadere che, nei casi di malattie gravi con sofferenze insopportabili, le persone provate siano tentate di esasperazione e i loro cari, o quanti sono preposti alle loro cure, possano sentirsi, spinti da una malintesa compassione, a ritenere ragionevole la soluzione della “morte dolce” (…). Ma ben altro è l’eutanasia, intesa come diretta provocazione della morte! Nonostante le intenzioni e le circostanze, essa resta un atto intrinsecamente cattivo, una violazione della legge divina, un’offesa alla dignità della persona umana».
Mentre in un discorso di qualche anno fa, rivolto all’Accademia Pontificia della Vita, Benedetto XVI ha stigmatizzato con decisione «la visione utilitaristica della persona» che c’è dietro la pratica dell’eutanasia, con parole che non lasciano spazio a dubbi:
«Tutta la società mediante le sue istituzioni sanitarie e civili è chiamata a rispettare la vita e la dignità del malato grave e del morente. In particolare i settori legati alla scienza medica sono tenuti ad esprimere la solidarietà dell'amore, la salvaguardia e il rispetto della vita umana in ogni momento del suo sviluppo terreno, soprattutto quando essa patisce una condizione di malattia o è nella sua fase terminale. Più in concreto, si tratta di assicurare ad ogni persona che ne avesse bisogno il sostegno necessario attraverso terapie e interventi medici adeguati, individuati e gestiti secondo i criteri della proporzionalità medica, sempre tenendo conto del dovere morale di somministrare (da parte del medico) e di accogliere (da parte del paziente) quei mezzi di preservazione della vita che, nella situazione concreta, risultino ordinari».
Dichiarazioni importantissime, attuali più che mai, in un momento come questo, in cui l’Italia rischia di imboccare la china della legalizzazione di una pratica di morte così devastante e che, come tutte le leggi, andrebbe a creare il “costume” di una vera e propria mentalità eutanasica nei medici e nei pazienti. Ribadire l’indisponibilità della vita, in questo momento storico, è più importante che mai, perché il medico continui ad essere un guaritore, mosso dalla compassione per la sofferenza altrui e non un freddo boia, mero esecutore di ordini decisamente contrari alla sua missione.
Manuela Antonacci