Quel che è accaduto in questa primavera non possiamo e non dobbiamo affatto dimenticarlo: una pandemia globale ha messo fatto sì che intere popolazioni si dovessero rinchiudere in casa, costringendole ad un’esperienza mai vissuta prima.
Per tanti di noi, le lunghe giornate nelle mura domestiche sono state un’occasione di riflessione. Assediati dalla minaccia del contagio, in tanti ci siamo interrogati sul senso della nostra vita, riscoprendo ciò che per noi conta davvero, riscoprendo l’importanza della Vita stessa e la preziosità di ogni momento, riconoscendo che ogni singolo attimo della nostra vita è un dono inestimabile da poter vivere pienamente.
«Che cosa è cambiato? Che quel vecchio plurimalato in terapia intensiva non era più un caso medico lontano e astratto, ma poteva essere sostituito da ciascuno di noi», commenta monsignor Nazareno Marconi, vescovo di Macerata, Tolentino, Recanati, Cingoli, Treia, leggiamo su Tempi.
Ed ecco che, evidenzia il presule, cambia il modo in cui i media chiamano medici e macchine: «da “accaniti” a “eroi”, da macchine a cui “staccare la spina” a macchine salvavita da assicurarsi “ad ogni costo”». Qualcuno in più, forse, ha capito che il compito del medico è quello di curare e salvare vite, di assistere la vita di chi è nella sofferenza in modo che possa soffrire il meno possibile, non di condurlo a morte.
Molti chiamano l’eutanasia “compassione”: non è così. «L’eutanasia è un amore falso per la vita degli altri che la domanda posta ad ognuno di noi dal Covid – “Come vorrei che fosse amata la mia vita fragile e minacciata?” – ha subito smascherato».
Avrebbe compassione di noi una società che vuole aprirci le porte all’eutanasia non appena diventiamo improduttivi, inducendoci persino a farne richiesta, dopo averci fatto sentire pesi inutili e in obbligo a togliere il disturbo? O è, piuttosto, compassionevole una società che lotta per la vita di ciascuno, specialmente di chi soffre, facendo di tutto per alleviare il loro dolore e dargli vicinanza?