Nel mese di ottobre 2012, Ezekiel Emanuel, un celebre oncologo e bioeticista americano, aveva scritto un articolo intitolato Quattro miti sul suicidio medicalmente assistito , che è stato pubblicato sul New York Times. Nell’articolo, si spiega il motivo per cui l’eutanasia non è necessariamente una “bella morte”.
Tutti dicono che l’eutanasia è un modo rapido, e indolore di morire. Ma nulla in campo medico è senza complicazioni. E ad un’attenta analisi si scopre che molte cose possono andare male nel corso di un suicidio assistito (cioè la forma ipocrita di eutanasia per cui è il malato che compie il gesto finale di assumere il veleno preparato dal boia).
Molti pazienti vomitano le pillole che hanno ingerito, non prendono abbastanza veleno e si svegliano invece di morire. Uno studio olandese dice che ciò accade almeno nel 7% dei casi. Nel 15%, invece, i pazienti impiegano molto più tempo del previsto per morire. Nel 18% dei casi i medici sono dovuti intervenire direttamente per somministrare un farmaco letale extra: una vera e propria eutanasia attiva, un omicidio perpetrato dal dottore.
Pochi giorni fa il Kaiser Health News ha pubblicato un articolo per promuovere un nuovo cocktail di droghe della Valeant Pharmaceuticals (non dimentichiamo che anche dietro all’eutanasia c’è un bel business per le case farmaceutiche e le cliniche-ammazzatoi): l’articolo spiega alcuni dei dettagli orribili associati con gli attuali farmaci in uso per il suicidio assistito.
Dicono, per esempio, che il Seconal brucia la bocca e la gola del paziente, tanto che alcuni urlano dal dolore. Un altro mix di droghe, utilizzato 67 volte, provoca lunghe agonie (in un caso la morte è sopraggiunta dopo 31 ore!).
Carol Parrot, un medico-boia che pratica l’eutanasia attraverso l’assistenza al suicidio nello Stato di Washington, ha esternato le sue preoccupazioni circa le agonie durate troppo a lungo. Specie nei pazienti che già sono abituati a antidolorifici (come quasi tutti quelli che chiedono l’eutanasia per “smettere di soffrire”). Ma la cosa può dipendere anche dal metabolismo individuale che può essere più o meno alterato.
Del resto, i medici esperti in sedazione e cure palliative (quelle vere che non hanno niente a che fare con l’eutanasia, perché non abbreviano la vita, ma rendono quel che ne resta esente da dolore) hanno dovuto constatare che certi farmaci che prima si usavano regolarmente per calmare i pazienti come il valium, in dosi massicce, e il roipnol, erano assolutamente da evitare: molti pazienti, finito l’effetto della sedazione hanno testimoniato che l’uno non leniva l’angoscia e il panico per cui era stato somministrato: all’esterno egli sembrava calmo, ma “dentro” si sentiva malissimo, solo che il valium gli impediva di manifestare il suo disagio. Quanto al roipnol, il paziente – anche lì esteriormente calmo e sopito – in realtà soffriva di incubi e allucinazioni mostruose che lo facevano stare malissimo (senza poterlo dimostrare). Perciò, molti medici hanno bandito l’uso di queste sostanze.
Perché qualcuno – dopo averne sperimentato l’effetto – ha spiegato quali fossero gli inconvenienti.
Quelli che invece sperimentano i farmaci che si usano per l’eutanasia, come il povero DJ Fabo, non hanno mai avuto la possibilità di testimoniare se e quanto la morte sia stata “bella” e indolore.
Francesca Romana Poleggi
Fonte: LifeNews
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