04/10/2021 di Luca Marcolivio

Eutanasia. Pandolfi: «Principale sostenitore è chi soffre di meno…»

In tempi di referendum sul suicidio assistito, come si risponde alla cultura della morte e dello scarto? Non servono argomentazioni scientifiche particolarmente articolate, né discorsi altisonanti. La soluzione più efficace è nell’amore. Far capire alla persona disabile o gravemente malata quanto vale e quanto è preziosa. Lungo questa linea d’azione si muove il club L’inguaribile voglia di vivere, fondato dal caporedattore del Resto del Carlino, Massimo Pandolfi. Autore di vari libri sul tema delle vite fragili, Pandolfi conosce da vicino il dramma di persone che hanno desiderato la morte e che, per un motivo o per un altro, sono riuscite a cambiare idea. Un’esperienza che ha condiviso in questa intervista rilasciata a Pro Vita & Famiglia.

 

Pandolfi, come vede il dibattito attuale sul fine vita?

«Il referendum è espressione del diritto sacrosanto dei cittadini di intervenire su determinate materie. Proprio per questo, la tecnologia non dovrebbe essere utilizzata in maniera superficiale. Non siamo su un social dove metti i tuoi like un po’ a casaccio, la firma per un referendum dovrebbe essere qualcosa di molto più ponderato e approfondito. Quindi, quando si parla di innalzare il quorum dei votanti, io mi trovo d’accordo. Riguardo alla tematica in generale, è chiaro che il dibattito mostra sempre e solo un pezzettino della vita di queste persone. Il punto è poter realmente scegliere. Io non posso giudicare chi non ce la fa e vuol essere aiutato a morire. Però di una cosa sono assolutamente convinto: i principali fautori dell’eutanasia sono quelli che soffrono di meno, non quelli che soffrono di più…».

Questo è molto significativo…

«Conosco tantissimi malati e disabili che lottano ogni giorno tra difficoltà, sofferenze e burocrazia per cercare ciò che cerchiamo tutti: la felicità. Noi del club L’inguaribile voglia di vivere abbiamo incontrato tantissime persone che in qualche modo, nonostante una disabilità gravissima, una malattia gravissima, riescono a dare un significato alla propria esistenza. L’obiettivo di ognuno di noi dovrebbe essere questo: come si fa a dare significato all’esistenza di una persona? Non c’è una regola matematica, non c’è un referendum cui votare sì o no, una legge che dice di fare A, B, C o D. È la vita, questa cosa meravigliosa, anche misteriosa, che ci capita di incontrare. Io dico sempre che la vita si vive, non si descrive. La vicenda di DJ Fabo è stata molto strumentalizzata: io rispetto totalmente la scelta di tutti quelli che, come lui, non ce la fanno. Non possiamo nemmeno limitarci a dire che la vita è sacra: è un concetto che ovviamente condivido ma chi non ce la fa più, può trovarlo irritante».

Qual è allora la risposta?

«La vera risposta non è nei dibattiti, né tantomeno in nuove leggi, ma è nel tendere la mano a chi sta male, aiutarlo, dare un significato alla sua esistenza. Accompagnare fino all’ultimo istante chiaramente non significa ammettere l’accanimento terapeutico. In questo senso c’è una differenza tra guarire e curare. Guarire non sempre è possibile ma non bisogna mai smettere di prendersi cura delle persone».

C’è qualche episodio capitato con il vostro club che ritiene emblematico?

«Mi viene in mente un malato di SLA di nome Sebastiano. Oggi lui non c’è più ma, grazie alla scelta della moglie, non è morto per eutanasia. Era una persona che aveva fatto una vita molto movimentata e intensa; quindi, quando si ammalò di SLA, per lui fu uno choc. Sarebbe sopravvissuto solo se attaccato a un respiratore: lui non voleva saperne e preferiva morire. Quando però i medici parlarono con la moglie, mettendola di fronte ad una scelta, lei non ebbe esitazione e disobbedì al marito. Quando si risvegliò attaccato al respiratore, Sebastiano si arrabbiò tantissimo con la moglie e per un mese non le rivolse la parola. Nei mesi successivi, però, i figli iniziarono a portare i nipotini da Sebastiano: a letto o sulla carrozzina, lui ci giocava e se li coccolava, anche se non poteva più parlare. È riuscito a dare un significato alla sua vita, è stato felice fino alla fine dei suoi giorni e, dopo il dispiacere iniziale, ha sempre ringraziato la moglie per averlo tenuto in vita».

Anche il governo e, in particolare, il Ministro Speranza stanno premendo per l’eutanasia e il suicido assistito legali, nonostante la loro insistenza sui vaccini e su altre misure atte a tutelare la vita dei più fragili durante la pandemia. Non lo trova contraddittorio?

«In molti sostengono che l’eutanasia è una libera scelta, una forma di autodeterminazione ma non è così. Oltre all’esempio che ho riportato prima, proviamo a pensare a un ipotetico aspirante suicida che vuol gettarsi giù da un ponte: cercare di fermarlo. Non sappiamo se quella persona è un malato terminale oppure ha ucciso cinquanta persone e vuole togliersi un peso dalla coscienza, eppure il nostro istinto naturale sarà sempre quello di salvarlo. Proteggere i nostri anziani è sacrosanto, di fatto, però, loro stessi si sentono sopportati, un peso, un costo per i figli che devono prendersene cura. C’è un tipo di mentalità che porta allo scarto, per la quale se una persona non ce la fa più, è giusto lasciarla andare. Invece, ogni persona è unica, irripetibile e preziosa: difenderne la vita di qualcuno non vuol dire accanirsi contro la sua libera scelta ma fare di tutto per dare significato alla sua esistenza».

Recentemente, sul Corriere della Sera, Aldo Cazzullo ha ricordato che persino Umberto Veronesi affermava che nessuno dei suoi pazienti, nemmeno quelli più gravi, gli aveva mai chiesto di morire ma tutti gli avevano sempre chiesto di guarire. Ciononostante, Veronesi, in tempi non sospetti, è stato fautore dell’eutanasia, così come lo è tuttora Cazzullo…

«Chi porta avanti queste battaglie spesso è anche in buona fede ma non è questo il punto. Ci ritroviamo divisi tra teoria e pratica. Noi, come associazione, crediamo che non contino tanto i discorsi teorici ma mettere in pratica quello che osservava anche Veronesi. Cerchiamo di dare un significato all’esistenza, senza fare battaglie politiche “talebane”, né cercare di convincere nessuno ma con un sorriso e mostrando l’esperienza di vita già capitata ad altre persone. Vogliamo aiutare le persone malate o disabili a realizzare i loro sogni».

 

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