12/02/2019

Eutanasia. Parla Boscia (AMCI): «Sondaggio Eurispes? Vi spiego da medico perché non convince»

Se i malati gravi e terminali ricevessero dai medici tutta l’attenzione umana e professionale che meritano, le richieste di eutanasia sarebbero prossime allo zero. A dichiararlo a Pro Vita è Filippo Maria Boscia, presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani (Amci), a commento del recente sondaggio Eurispes, secondo il quale gli italiani favorevoli alla “dolce morte” sarebbero intorno al 73%. Secondo il professor Boscia è assolutamente fuorviante affrontare il problema in maniera semplicistica e dicotomica, con domande del tipo: “Sei favorevole o contrario?”. Al tempo stesso, ribadisce il presidente dell’Amci, i medici sono tenuti a lottare sempre per la vita dei propri pazienti, altrimenti tradirebbero la loro deontologia professionale.

Boscia, che valutazione si può dare al recente sondaggio Eurispes?

«Ritengo vi siano irregolarità come in tutti i sondaggi. Si tende sempre ad affrontare il problema semplicemente in base all’essere favorevoli o contrari, neanche si stesse parlando di No Tav o Sì Tav… Credo questa indagine sia stata orientata da coloro che, non soddisfatti dalla legge sul testamento biologico, vogliono entrare in un discorso più ampio sull’autodeterminazione del paziente. In altre parole, si sta cercando di giungere a tutti i costi a una legalizzazione dell’eutanasia. Invece, bisognerebbe stare molto attenti quando si pone l’accento sulla realtà particolarmente penosa di chi giunge alla fine della sua vita. Innanzitutto, i progressi della medicina hanno cambiato l’approccio con la morte, la quale, a differenza di un tempo, in genere è meno improvvisa, mentre l’età media si è allungata. La medicina moderna ha determinato, in un certo senso, l’insorgere degli “stati terminali”. Quindi, quando una persona arriva alla fine della vita, deve fare i conti con la rinuncia progressiva ad una costellazione di affetti, abitudini e attaccamenti. Alcuni rischiano di affogare nella sofferenza, altri vivono la fine della vita come un nonsenso, un fallimento e una distruzione che non lascia spazio a nessuna costruzione di sorta. Pertanto, molti si chiedono a che scopo continuare a vivere, se attendere o accelerare il momento della morte. Oltre ai progressi scientifici, va tenuto conto che ci troviamo in un’epoca in cui l’uomo ha meno familiarità con la morte, e in cui i legami familiari e le coscienze religiose si vanno affievolendo. È chiaro, allora, che il concetto di dolore è oggetto di un cambiamento e riempie il campo della coscienza di malati, parenti e medici».

Alla luce della sua esperienza sul campo, c’è davvero un così ampio consenso tra gli italiani intorno all’eutanasia?

«Posso dire che, se i medici saranno capaci di stare vicini ai loro malati, di dosare con precisione i medicamenti anestetici e di sedare il dolore, le domande di eutanasia non ci saranno più. I colleghi mi hanno sempre detto che sono rarissime e, nella maggior parte dei casi, non si ripetono, specie se si riesce a instaurare una relazione umana con il malato. Bisogna quindi essere estremamente prudenti nell’interpretare una “domanda di morte”, che potrebbe anche essere semplicemente il frutto di un momento di grave angoscia. Sono convintissimo che, nella grande maggioranza dei casi, la domanda di morte sia una richiesta d’amore. Ai giorni nostri, nella nostra società occidentale opulenta, molte persone che arrivano alla soglia della morte, hanno bisogno di continuare a sentire il desiderio della vita e questo desiderio lo sentiamo quando ci troviamo davanti agli occhi degli altri, quando ci poniamo in relazione con gli altri e anche quando ci troviamo a giudicare il valore della nostra vita che va sempre rispettato, anche se la vita durerà ancora poco».

Ora però, sull’eutanasia, c’è anche in discussione una proposta di legge in Parlamento…

«L’obiettivo rimane quello di un no all’eutanasia ma anche di un no alla sproporzione terapeutica, perché anche questa viola la dignità dell’individuo. In ogni caso non possiamo chiedere a nessuno: “Vuoi o non vuoi l’eutanasia?”. È un capitolo difficile, complesso e problematico. In momenti particolari della nostra professione, è auspicabile che noi medici prendessimo coscienza e visione di insieme della storia del malato e di tutti i trattamenti che ha subito. Dovrei immaginare di trovarmi di fronte a mio padre in un momento di sofferenza: solo questo può permettermi di arrivare a una conclusione ragionevole in merito al ritardare ancora la morte o lasciar fare alla natura.
Per i medici, curare significa prima di tutto prendersi cura di una persona, significa venire incontro ai bisogni dei pazienti, mettere in campo tutti i mezzi possibili per aiutare la vita. Non siamo chiamati a consolare a ogni costo ma a essere una presenza viva che ascolta anche colui che se ne va. Invece la medicina sta prendendo una bruttissima piega, è diventata una “medicina economica”. Avendo la sanità dei costi, è come se si fossero stabiliti dei parametri per la “rottamazione” delle persone.
Come medico ho giurato di prendermi cura dell’uomo e della ricerca della verità della malattia. Piuttosto che dire “eutanasia sì o eutanasia no”, dobbiamo cercare a tutti i costi una legge che sia capace di darci una buona medicina. Una medicina che sia svolta con coerenza di valori, con competenza e con spirito di collaborazione. Se questo non avviene, il medico stesso può diventare un pericolo per la salute del paziente».

Quando parla di una nuova legge, allude anche a un ulteriore incentivo alle cure palliative?

«Ovviamente sì. Una legge sulle cure palliative già c’è ma non l’abbiamo mai applicata, eppure è una splendida legge che tutti i medici dovrebbero conoscere, proprio partendo dall’assunto che l’eutanasia è una sconfitta per l’uomo moderno ma oggi la medicina può avvalersi di tutta una serie di risorse, in grado anche di colmare la condizione di angoscia dell’uomo contemporaneo. Tra dolore e ansia si stabilisce una relazione così stretta che, quando il dolore e l’ansia sono ad alti livelli, questo può portare anche a una percezione di dolore molto più ampia, da cui possono scaturire reazioni di rabbia, paura, lotta, fuga e vari turbamenti psichici. Credo ci sia molto da fare, forse la medicina è un po’ impreparata a gestire questa situazione. La via di uscita più facile sarebbe quella del procurare facilmente la morte: se la medicina ci orienta verso questa facile strada, sicuramente rinnega se stessa, il medico rinnega la sua deontologia, non è più medico della cura ma medico della morte. Chi non vuol farsi curare non sarà certamente obbligato dai medici a essere curato ma nel momento in cui un malato giunge al cospetto di un medico, già compie una scelta di combattere fino alla fine, di non rassegnarsi all’inevitabile. Altrimenti perché si va dal medico? Per chiedere un’eutanasia per pietà? Non è assolutamente questo il compito di un medico».

Luca Marcolivio

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