Un grosso ostacolo nel contrasto alla pratica eutanasica è la non corretta misurazione del livello di dolore del paziente, in base al quale si può dire se ci sia accanimento terapeutico o meno. Altro motivo cruciale della diffusione della cultura della morte è nella solitudine e nella mancanza di fiducia negli altri e, in particolare, nei medici. Pro Vita & Famiglia ne ha parlato con Carlo Bellieni, pediatra, neonatologo, docente di Terapia Neonatale alla Scuola di Specializzazione in pediatria dell’Università degli Studi di Siena e membro della Pontificia Accademia Pro Vita.
Professor Bellieni, si discute molto di “accanimento terapeutico”: ci sono parametri o strumenti per individuare i casi dove si manifesta?
«Si parla correttamente di accanimento terapeutico, quando, seppur con buone intenzioni, si praticano insistentemente trattamenti medici che provocano dolore. Il parametro oggettivo è il dolore o lo stress nel paziente. A volte, il paziente non riesce a esprimersi e a manifestare se una terapia è per lui sopportabile o no. Quando manifesta insofferenza, allora bisogna cercare di stargli vicino e capire se è davvero così o se si tratta di un momento di sconforto, quindi se è il caso o meno di ridurre il trattamento. In altri casi (paziente disabile mentale, in coma o bambino), bisognerà capire in altre maniere come lui esprime il suo stress e se il dolore c’è veramente. Da diversi anni disponiamo di strumenti in grado di misurare il livello di questo dolore. Anche una persona in coma può dare dei segnali per riconoscere se sta soffrendo e se è il caso di diminuire il trattamento cui è sottoposto».
Un concetto equivocato è quello di “dignità”. Perché i sostenitori dell’eutanasia evocano il concetto di vita “non più dignitosa”?
«Nulla, nemmeno la più grave patologia può togliere la dignità a una persona. Chi guarda un malato dall’esterno, magari intubato o sottoposto a flebo o cateteri, tuttavia, può percepire una diminuzione della dignità di quella persona. Questo però non corrisponde mai alla essenza della persona. Si può anche perdere coscienza, si possono perdere le capacità motorie ma, dal momento del concepimento alla morte, nessuna persona perde mai la dignità. Nella peggiore delle ipotesi, qualcuno può offendere questa dignità. Allora il problema non è lasciar morire una persona ma fare in modo che la sua dignità non sia offesa».
L’attuale legge sul biotestamento legittima l’eutanasia?
«Non è certo una legge pro vita ma non consente nemmeno l’eutanasia nel senso “;attivo”. Il suo lato più negativo sta in un aspetto apparentemente innocuo: il consenso informato. Il rapporto tra medico e paziente dev’essere un rapporto di fiducia e non può esaurirsi in un contratto o in una firma. Invece, in un certo senso, il paziente obbliga il medico a esaudire le sue volontà, senza che questi abbia la possibilità di mostrargli che sta prendendo una strada sbagliata e che ci sono altre chance terapeutiche per lui. Molte decisioni mediche vengono prese dai pazienti a causa della solitudine, della paura, per motivi psicologici o per ignoranza, quindi è bene che il medico possa dire la sua e non semplicemente eseguire degli ordini.
La legge sul biotestamento presenta tuttavia un risvolto “positivo” nella cura dei minori. Mentre il paziente adulto può decidere di non ricevere un trattamento, anche se gli facesse bene, un genitore non può decidere “contro la vita e la salute” del figlio. È una differenza importante che purtroppo non viene mai sottolineata. Mentre per l’adulto c’è un distacco con il medico, nel caso del bambino, il medico rimane garante della salute del piccolo paziente, anche nel caso di eventuali scelte sbagliate dei genitori».
Perché c’è tanta pressione in alcuni ambiti politici e medici per l’approvazione di una legge sull’eutanasia?
«Il problema è che in giro c’è una mentalità che favorisce l’eutanasia. Le ragioni principali sono due. La prima è rintracciabile nella solitudine: quando non si ha più nessuno intorno e si crede che le cose stanno girando male, alcuni arrivano a desiderare di morire o di far morire il proprio parente malato. In secondo luogo, c’è un approccio troppo istintivo a questi temi. Se si mette paura, paventando una morte terribile, le persone sceglieranno di non sopportare quello che stanno vivendo. La realtà è che, anche quando le cure sono da sospendere perché troppo dolorose, non si può mai farlo allo scopo di uccidere: lo scopo deve essere far passare il dolore, accettando semmai che da questo derivi un indebolimento delle resistenze vitali. Si sta determinando un clima di inciviltà, per cui la gente si sente sempre più sola, non si fida di nessuno e, alla prima difficoltà, rifiuta una terapia. Invece, negli ultimi anni, molte persone che sono andate incontro alla sospensione delle cure, potevano essere curate. Il fatto è che bisogna cercare di capire quanto questi malesseri, più che dal dolore vengano dalla paura e possano essere curati o al contrario, siano incurabili».
Qual è il suo giudizio da medico sul caso di Vincent Lambert?
«Il vero punto non è se abbia ragione la famiglia o, piuttosto, se abbiano ragione i medici e i giudici. Bisognerebbe capire se il paziente provi un dolore tale da non essere sopportato. Se così fosse, non c’è motivo di dargli cure che prolunghino il suo stato. Sempre però mantenendo nutrizione e idratazione. Non mi pare, comunque, che sia stata fatta una misurazione del dolore sul signor Lambert. In ogni caso, non sembra proprio che lui provi questo dolore, quindi non c’è motivo alcuno per togliergli le cure. Qualcuno potrà dire che è una vita non degna di essere vissuta, perché il paziente ha perso la capacità di parlare e collaborare con gli altri. Questa, però, è una valutazione soggettiva di chi pensa che la vita abbia una dignità solo a certe condizioni. Pensare una cosa del genere è poco rispettoso sia della persona in oggetto che dell’intero genere umano».
Luca Marcolivio