Il programma di eutanasia nazista “Aktion T4” diede il via alla soppressione delle cosiddette vite ritenute dal regime “non degne d’essere vissute”, come quelle di disabili, malati mentali o portatori di malattie genetiche (“bella” forma di inclusione).
Essa era una pratica volta all’“igiene razziale”, come se le persone che da essa venivano eliminate in qualche modo “sporcassero” la società e fosse necessaria una sorta di pulizia o di bonifica che le togliesse di mezzo.
Gli anni passarono e l’eutanasia tornò sotto il nome di “compassione”, prima per le persone in stato vegetativo, poi per i malati terminali e pian piano per sempre più categorie di sofferenti, fino ad arrivare persino ai depressi.
È ovvio che chi attraversa un grave dolore verte in una particolare situazione di vulnerabilità e vivere per lui diventa difficile. Avere le porte della legge aperte all’opzione della morte assistita (con fior fior di campagne che la promuovono), dunque, non è come ricevere una spintarella per togliersi di mezzo? Altro che “libertà” di scegliere la morte. Queste persone hanno bisogno che qualcuno stia loro vicino, lotti per loro, non li faccia sentire mai un peso. Hanno bisogno che lo Stato garantisca loro tutto l’aiuto psicologico, economico e sanitario di cui necessitano per vivere.
Così, i paladini dell’eutanasia festeggiano ad ogni paletto abbattuto che delimiti la legalità di questa pratica, osannandola come forma di “libertà”, e vengono immediatamente contraddetti dai fatti. Dopo sempre più casi in cui l’eutanasia è stata praticata senza il consenso del paziente o dei parenti, ecco che arriva il «Via libera dalla Corte suprema olandese all'eutanasia per i pazienti affetti da demenza avanzata, seppur non in grado di reiterare il loro desiderio di porre fine alla propria vita», come leggiamo su Agi.
Insomma, chi redige un testamento biologico (le nostre sciagurate “dat” – anche se fortunatamente in Italia l’eutanasia attiva è ancora illegale), indicando in quali condizioni desidera la morte assistita, potrebbe vedere applicata la propria condanna a morte anche nel caso in cui avesse cambiato idea ma non fosse ormai più in grado di esprimersi.
Proprio com’è successo a quell’anziana con demenza senile (di cui parlammo in un articolo) che, con un testamento biologico non molto chiaro, ricevette l’eutanasia mentre si ribellava a tale supplizio, al punto che il medico avrebbe chiesto alla famiglia di tenerla ferma durante l’iniezione letale. Ma sì, continuiamola pure a chiamare “compassione”, “libertà”, “diritto”.
di Luca Scalise