Contro l’eutanasia, rimane in piedi un robusto baluardo: la cultura della cura e della prossimità. Principi laici, universali e trasversali a tutte le religioni, di cui, però, la Chiesa Cattolica rimane la paladina più credibile, grazie al suo magistero. Di questo insegnamento si fa portavoce, tra gli altri, monsignor Antonio Suetta, vescovo di Sanremo-Ventimiglia, noto anche per aver auspicato l’abolizione della Legge 194. Raggiunto telefonicamente da Pro Vita & Famiglia, monsignor Suetta si è espresso sullo scenario attuale e sulle prospettive parlamentari e referendarie su eutanasia e suicidio assistito.
Eccellenza, come valuta il dibattito politico attuale sul fine vita?
«Mi sembra che purtroppo siamo di fronte a una tragica evoluzione della deriva cui assistiamo negli ultimi tempi. Eutanasia e suicidio assistito rientrano in quel ventaglio di situazioni che papa Francesco indica come “cultura dello scarto”. La mentalità occidentale sta perdendo il rispetto fondamentale per la vita – in particolare la vita più fragile – considerandola un bene disponibile e facendola dipendere dai possibili tornaconti sociali o personali, nella prospettiva della cosiddetta “qualità della vita”, del benessere o dell’efficienza. Pertanto, è prevedibile che concezioni della vita di questo tipo finiscano per fomentare un discorso politico sull’eutanasia».
Su questo fronte, i Radicali stanno raccogliendo le firme per il loro ennesimo referendum…
«Come hanno fatto notare alcuni costituzionalisti, questa raccolta di firme è utile ai Radicali più che altro ad accendere il dibattito. Trattandosi di referendum abrogativo, il risultato sarebbe la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente. Ciò rappresenta, comunque, una sorta di grimaldello per promuovere l’eutanasia, anche perché l’eutanasia in senso stretto, comunque implica l’omicidio di una persona più o meno consenziente».
Ritiene possa esserci spazio per una legge sul fine vita che tuteli effettivamente la vita fino all’ultimo istante oppure si tratterebbe di una contraddizione in termini?
«Se venisse fuori una legge ben fatta, non vi vedrei alcuna contraddizione. La materia è comunque molto articolata e vede connessi diversi argomenti. Uno questi è l’accompagnare il malato terminale con dignità, un altro è quello dell’alleviare il dolore. Altro argomento ancora è quello dell’eutanasia. Sono concetti contigui ma, nella sostanza, profondamente diversi. Premesso che va sempre escluso l’accanimento terapeutico, occorre fare una distinzione importante tra terapia e cura. Mentre la terapia è un intervento mirato a superare condizioni patologiche, la cura è qualcosa di più generale, che coinvolge tutta la persona nel suo aspetto fisico, patologico, fisiologico, accompagnandola fino alla fine naturale della vita, ma che naturalmente, coinvolge anche l’aspetto relazionale, sociale, spirituale, morale. Altro ambito è quello delle cure palliative, che implicano una gradazione di interventi per l’alleviamento del dolore, fino a forme in cui, quando il quadro clinico è divenuto refrattario a tutte le cure, si può optare per la sedazione profonda. Tutti questi sono argomenti “di confine”, ma fintanto che rimangono sul versante della cura, cioè dell’accompagnamento della persona nel rispetto dei tempi della vita, si collocano in un ambito non solo legittimo ma addirittura positivo. A mio avviso, il fine-vita dovrebbe essere argomento di una legislazione attenta e puntuale, di modo che non si lascino vuoti in grado di favorire abusi. L’eutanasia è un’altra cosa: sia che si tratti di eutanasia “passiva” che “attiva”, siamo di fronte a una posizione contraria non solo alla morale cristiana ma anche all’etica naturale: la vita è un bene indisponibile. A livello parlamentare, dunque, mi auguro che prevalgano posizioni capaci di garantire ogni forma di accompagnamento “buono” alla morte, in situazioni tragiche di malattie terminali e di patologie gravemente invalidanti».
Qual è la sua esperienza pastorale di sacerdote e vescovo nell’accompagnamento dei pazienti alla morte?
«In questo ambito il verbo più idoneo è proprio “accompagnare”. È necessario sia promuovere sia una cultura della vita, sia una catechesi adeguata, affinché il dolore, la malattia e il fine-vita siano collocati in una prospettiva di comprensione genuinamente cristiana. È importante che questo percorso di accompagnamento sia fatto per tempo, sia per il malato, che per le persone (familiari e personale sanitario) che gli sono accanto. A questo proposito, ho sempre notato che, nel trattare queste cose, le persone che si avvicinano a un paziente terminale, in genere hanno una sorta di cautela di pudore che invece il malato non ha. A meno che non si trovi in una condizione di incoscienza, egli viene naturalmente portato a prendere coscienza della sua situazione. È proprio vero quando si dice che “si muore come si è vissuto”. Se una persona ha tenuto un certo tipo di approccio alla vita, saprà orientarsi anche nel momento in cui avrà ovviamente bisogno dell’aiuto degli altri, sia esso l’aiuto terapeutico che l’aiuto morale e spirituale. Ciò implica preghiera, condivisione di sentimenti umani e cristiani ma anche l’accompagnamento sacramentale. Tutti i sacramenti, dall’unzione degli infermi alla penitenza ma, soprattutto, l’eucaristia, rappresentano un conforto della fede, una grande fonte di consolazione e un sostegno in questo passaggio definitivo. Quella che chiamiamo “agonia”, letteralmente è un combattimento non solo tra la vita e la morte ma anche un combattimento spirituale in cui l’uomo è chiamato a superare tutte le tentazioni di sfiducia e di scoraggiamento, per affidarsi e consegnarsi al Signore. Credo che questo momento, anche nella sua drammaticità, tanto per chi lo attraversa quanto per chi gli sta attorno, sia un momento prezioso e decisivo per l’esistenza. Non ci si può appiattire su una valutazione della vita solo in base a pochi parametri, tutti legati solo alla materialità. La concezione materialistica, secolarizzata, efficientista della vita non comprende questo ragionamento, eppure, da un punto di vista non solo cristiano ma di attenzione più profonda al mistero dell’esistenza, si capisce che quello della morte è un passaggio significativo, che è giusto sia lasciato alla legge della vita in cui interviene la Divina Provvidenza».