Gianrenato De Gaetani, dirigente di associazioni pro vita del Tigullio, nel genovese, e fra i soci fondatori di due associazioni culturali, Fons Gemina di Rapallo e Domus Cultura di Genova, ha intervistato il magistrato Giacomo Rocchi, consigliere della Corte di Cassazione, sul dibattito relativo al fine vita.
Dottor Rocchi, Lei ritiene sia giunto il momento, per la situazione del Paese e per il richiamo della Corte costituzionale, con cui si arrivi a produrre una Legge sul cosiddetto fine vita? onde evitare l'ennesimo e dispendioso referendum?
«Sono convinto che una legge come quella che si sta discutendo in Parlamento non solo non sia necessaria, ma non sia nemmeno opportuna. Attualmente, sulla base della sentenza della Corte Costituzionale sul caso Dj Fabo, i giudici, nel singolo caso di aiuto al suicidio, possono assolvere l’autore in presenza delle condizioni indicate dalla Corte: quindi, una assoluzione che riguarda il caso specifico. Con una legge cambia tutto: lo Stato avrà l’obbligo di garantire a determinate persone il diritto ad essere aiutate a suicidarsi: non a caso, il disegno di legge approvato alla Camera permette di ricorrere al giudice per far valere tale diritto. Ma i diritti tendono ad espandersi e spesso i limiti posti dal legislatore cadono. D’altro canto, con una legge del genere si affermerebbe pubblicamente e coattivamente che è bene ed è giusto che alcune persone che desiderano morire siano aiutate a farlo dallo Stato, purché si trovino in certe condizioni; lo Stato dirà espressamente a quelle persone: “non mi servi, non mi importa di te, se muori non cambia nulla, la tua sofferenza non serve alla società; anzi: è meglio che tu muoia!”»
Quali i vari emendamenti - modifiche da portare avanti per il Pdl in fieri soprattutto per trovare un punto di incontro tra le diverse posizioni?
«Premessa la contrarietà ad una legge sul suicidio assistito, credo che il disegno di legge approvato alla Camera sia generico nel descrivere le condizioni che legittimano la richiesta di suicidio assistito: si parla di “condizione clinica irreversibile” e di “prognosi infausta”, senza fare affatto riferimento ad un’imminenza della morte e, quindi estendendo i casi anche a pazienti stabili le cui patologie possono essere curate; si fa riferimento a “trattamenti di sostegno vitale”: ma la giurisprudenza, ormai, considera tali anche un pacemaker o un trattamento di tipo farmacologico o infermieristico; soprattutto, sarà chi chiede di essere aiutato a morire a valutare l’intollerabilità delle sofferenze, cosicché sarà permesso il suicidio anche di coloro che presentano sofferenze oggettivamente lievi. I passaggi burocratici previsti dal progetto per giungere al suicidio assistito, inoltre, non garantiscono affatto una risposta umana complessiva all’SOS lanciato da chi chiede di morire: basta pensare che familiari e amici possono essere tenuti lontani e restare all’oscuro dell’intera procedura fino alla morte! La procedura è troppo veloce (una modifica approvata alla Camera prevede che si proceda “senza ritardo”) e impedisce ripensamenti: eppure, tutti conosciamo periodi di depressione e scoraggiamento cui seguono altri in cui ci riprendiamo e troviamo un senso alle nostre giornate, anche nella malattia».
Papa Francesco stesso consiglia "pacatezza" per trovare soluzioni "il più possibile condivise", quale il suo punto di vista?
«Non credo che il Papa solleciti compromessi sulla possibilità di obbligare lo Stato ad uccidere coloro che lo chiedono. D’altro canto, il progetto di legge è l’ennesima attuazione della “cultura dello scarto” tanto deprecata da Papa Francesco; sì, perché la legge estenderebbe la possibilità di una morte anticipata di uomini considerati “inutili”, “improduttivi” e “costosi”: malati cronici e, soprattutto, anziani. Anche se non viene detto, mi sembra evidente che - mentre a livello mediatico vengono presentati i casi di persone affette da gravissime patologie che procurano loro grandi sofferenze - l’obiettivo principale del progetto sono gli anziani nelle RSA o in case di cura: tutti soggetti affetti da una qualche “condizione clinica irreversibile”, dipendenti da forme di sostegno vitale e spesso depressi, tristi, soli. Se approvassimo una legge del genere faremmo comprendere che la loro esistenza non ci interessa e che, anzi, farebbero bene a togliersi di torno quanto prima».
Di cosa parla l'art. 579 del Codice penale, quale sarebbe la eventuale proposta referendaria, quale sarebbe il grave vulnus giuridico su un bene fondamentale qual è la vita?
«Il referendum radicale che la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile costituiva un balzo in avanti enorme, tipico di chi l’ha proposto: era finalizzato, in realtà, ad approvare una legge sul suicidio assistito quanto più possibile ampia (i proponenti sapevano perfettamente che il referendum non sarebbe stato ammesso). Il referendum permetteva a chiunque di uccidere – con qualsiasi mezzo: anche con un colpo di pistola o una coltellata ‒ il soggetto maggiorenne e capace di intendere e di volere che lo avesse chiesto, a prescindere dai motivi della richiesta e al di fuori di qualsiasi ragione di carattere medico. La sentenza della Corte Costituzionale e il progetto di legge in discussione riguardano, invece, il suicidio assistito (la persona che vuole morire dovrà personalmente compiere l’atto finale che ne determina la morte) e lo legittimano esclusivamente su motivazioni di carattere sanitario (anche se, come ho detto, il progetto delimita i casi in maniera molto generica».
Cosa significa quando si parla apertamente di suicidio medicalmente assistito?
«Il progetto riconosce alle persone il diritto a suicidarsi con un ausilio di tipo medico: il medico dovrà verificare che il soggetto richiedente si trova nelle condizioni previste dalla legge (è previsto il parere di un Comitato) e che la sua richiesta è informata, libera e consapevole; l’ospedale dovrà approntare locali adatti e strumentazioni che permettano il suicidio anche ai disabili e fornire il veleno più adatto, garantendo che la morte avvenga senza sofferenza; un medico dovrà assistere all’atto del suicidio. Tutto questo va contro la missione dei medici – che sono chiamati a curare, non ad aiutare il paziente a morire – e degli ospedali – che sono i luoghi in cui si curano i pazienti, finché è possibile, e che dovranno, invece, predisporre apposite “stanze della morte».
Sembra anche a Lei che altri Paesi che hanno già legiferato in tale direzione stiano correndo ai ripari per la difficilissima gestione delle reali richieste di eutanasia? In altre parole, non si rischia di dare la possibilità, se la Legge che dovesse così passare, a richieste di morte (medicalmente) assistita da parte di pazienti in cui la vera capacità decisionale sia compromessa?
«L’esperienza di altri Paesi dimostra che, quando si è aperta la strada al suicidio assistito – quando, cioè, il medico non garantisce più al paziente che farà tutto il possibile per curarlo – le richieste di morte aumentano enormemente: ai malati gravi e agli anziani viene presentata una possibilità che prima non esisteva e questo indebolisce la loro resistenza e li rende più fragili. È la conseguenza del venir meno dell’alleanza tra il malato e il medico e tra il malato e la società, che si disinteressa della sua sorte. Il rischio di richieste di suicidio assistito da parte di persone che, benché capaci di intendere e di volere, sono disperate, depresse, confuse, isolate è altissimo».
Quali le modifiche utili da proporre al Pdl per garantire e implementare le cure palliative, che riteniamo ancora il massimo che si possa fornire alla Persona e a garanzia della Vita!
«Il progetto di legge prevede che il medico coinvolga il paziente in un percorso di cure palliative, registrandone il rifiuto o la volontà di interromperle: secondo me, non è altro che un passaggio burocratico necessario per permettere il suicidio assistito. Benché si parli di “potenziamento della rete di cure palliative che garantisca la copertura efficace e omogenea di tutto il territorio nazionale”, la clausola di invarianza finanziaria, secondo cui dall’attuazione della legge non devono derivare nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica, dimostra che non si spenderà un euro in più per le cure palliative. Occorre, invece, un potenziamento effettivo e non fittizio. Tuttavia, mi sembra evidente che la possibilità di ricorrere al suicidio assistito renda di per sé la proposta al paziente di sottoporsi a cure palliative debole, non convinta e non convincente».
In ultimo, come poter concretamente riuscire promulgando a coniugare le lecite posizioni di obiezione di coscienza da parte degli operatori sanitari, conseguenti eventuali privatizzazione del servizio, inevitabili interpretazioni distorsioni sulla sedazione palliativa profonda senza consenso?
«Il progetto riconosce il diritto all’obiezione di coscienza del personale sanitario (non solo dei medici); tendenzialmente il suicidio medicalmente assistito dovrà essere eseguito dalle strutture pubbliche ma, in verità, non vi è un espresso divieto di sua realizzazione da parte di medici privati o strutture private. D’altro canto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 richiedeva soltanto il controllo da parte del servizio sanitario nazionale, e non la diretta esecuzione da parte delle strutture pubbliche. Quindi, in Italia potranno sorgere strutture private come quelle svizzere dove Fabiano Antoniani si recò per suicidarsi. Il tema della sedazione palliativa profonda senza consenso sembra più legato all’interruzione delle terapie salvavita nei confronti dei soggetti incapaci, permessa dalla legge n. 219 del 2017 (legge sulle DAT): anche recentemente, nel caso di Samantha D’Incà, abbiamo assistito alla decisione dell’amministratore di sostegno della disabile, in accordo con i medici, di interrompere la nutrizione artificiale e di procedere alla sedazione palliativa profonda, determinandone la morte, benché la stessa non avesse mai redatto le Disposizioni Anticipate di Trattamento. La sentenza della Corte Costituzionale sul caso Dj Fabo e il progetto di legge sul suicidio assistito fanno leva su tale legge e fanno un altro passo in avanti, quello del suicidio di soggetti consapevoli che non si trovano nell’imminenza della morte ma ritengono le proprie sofferenze intollerabili».