Nei mesi scorsi Pro Vita & Famiglia l’aveva più volte denunciato attraverso testimonianze di genitori in difficoltà (leggi qui, qui e qui): la didattica a distanza penalizza in modo particolarmente drammatico gli studenti disabili. A dare triste conferma al fenomeno sono le statistiche più recenti. Secondo i dati del Rapporto sul benessere equo e sostenibile (BES) curato dall’ISTAT, almeno il 10% degli alunni delle primarie, secondarie o superiori non ha accesso alla didattica a distanza. La percentuale degli esclusi sale al 23% tra i disabili.
Numeri che fanno rabbrividire e vergognare, tanto più se confrontati al resto d’Europa. Se è vero che, a metà del 2020, il 62,6% degli italiani tra i 25 e i 64 anni era in possesso almeno del diploma superiore, il nostro paese si trova comunque di 16 punti percentuali sotto la media europea. Discorso analogo per quanto riguarda i titoli universitari o terziari: nel 2010, soltanto il 27,9% degli italiani tra i 30 e i 34 anni era dotato di tale titolo, contro il 42,1% della media dell’Unione Europea. Facile comprendere che, se non si interviene tempestivamente sull’emergenza scolastica attuale, il divario è destinato ad accrescersi vistosamente e, anche in questo ambito, l’Italia rischia di ritrovarsi fanalino di coda.
Tornando allo specifico degli studenti disabili, va ricordato che il DPCM dello scorso 2 marzo, all’art. 43, dispone una deroga per le zone rosse: «Resta salva la possibilità di svolgere attività in presenza qualora sia necessario l’uso dei laboratori o in ragione di mantenere una relazione educativa che realizzi l’effettiva inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali».
Per fare in modo che gli studenti disabili non rimangano soli in classe nei giorni di zona rossa, una nota operativa stabilisce che, in base al “principio di inclusione”, ogni scuola valuterà di coinvolgere nelle attività in presenza altri alunni non BES, per salvaguardare l’adeguata relazione con il gruppo dei pari. Prevedere un’eccezione di tale tipo era il minimo che si potesse fare. Se tale principio sarà pienamente e scrupolosamente applicato, sarà tutto da vedere.
Ciò che è in gioco è il diritto all’istruzione, messo a repentaglio non soltanto per i disabili ma per tutti gli studenti con disagi, siano essi fisici o socio-economico. Un rischio più volte denunciato, tra gli altri, da suor Anna Monia Alfieri, anche dalle pagine del nostro sito. Come ricordato dalla referente scuola dell’Unione dei Superiori Maggiori d’Italia, sarebbero almeno 300mila gli studenti disabili rimasti completamente esclusi da processo didattico. Senza contare l’altra spada di Damocle: la preoccupante penuria di insegnanti di sostegno.
I disagi degli alunni disabili, comunque, non possono essere ridotti soltanto a una questione puramente tecnica o politico-amministrativa. È anche un discorso culturale e civico. Oseremmo dire che i primi a dover essere educati ad una maggiore sensibilità in questo ambito sono gli adulti, a partire dagli stessi insegnanti e dirigenti scolastici. C’è un clima di “guerra tra poveri” che andrebbe stroncato sul nascere e la cui prima causa scatenante è l’ignoranza. La maggior parte degli italiani, ad esempio, ignora che il tasso di contagi nelle scuole nell’ultimo trimestre dello scorso anno, rispetto ad altri contesti sociali, è stato bassissimo. Una ragione in più per avere rispetto per gli studenti e i genitori che implorano il ritorno integrale alla didattica in presenza. Se è vero che le decisioni ultime sono sempre di ambito politico, è altrettanto vero che tutto il settore scolastico – dal primo dei presidi all’ultimo degli studenti disabili – deve essere compatto nel marciare nella stessa direzione.
Chiedere di poter andare a scuola non è affatto un lusso, né calpesta alcun diritto alla salute della collettività: al contrario, è anch’esso un diritto-dovere. La Costituzione italiana non pone affatto in contrasto i due diritti alla salute e all’istruzione ma tutela equamente entrambi: se anche solo uno dei due diritti venisse meno, sarebbe in gioco il futuro del nostro popolo. Chi, dunque, assolutizza il principio della prevenzione della pandemia, magari in nome di un malinteso concetto di “altruismo”, di “senso civico” o di “protezione dei deboli” ma poi rimane completamente indifferente al destino di centinaia di migliaia di ragazzi disabili, dovrebbe come minimo scrollarsi di dosso il manto di ipocrisia che lo avvolge.