«Nascere, vivere, morire: tre verbi che disegnano la traiettoria dell’esistenza. La persona li attraversa, forte della sua dignità che l’accompagna per tutta la vita: quando nasce, cresce, come quando invecchia e si ammala», sono le parole della Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna che – attraverso una nota ufficiale resa nota nel corso di un’assemblea a Roma – si è espressa sul tema del fine vita.
Ogni persona, si legge nel documento «sperimenta forza e vulnerabilità, intimità e vita sociale, libertà e condizionamenti. Gli sviluppi della medicina e del benessere consentono oggi cure nuove e un significativo prolungamento dell’esistenza. Si profila così la necessità di modalità di accompagnamento e di assistenza permanente verso le persone anziane e ammalate, anche quando non c’è più la possibilità di guarigione, continuando e incrementando l’ampio orizzonte delle “cure”, cioè di forme di prossimità relazionale e mediche».
I vescovi emiliano-romagnoli – guidati dal loro presidente, monsignor Giacomo Morandi, Vescovo di Reggio Emilia-Guastalla - ribadiscono sostanzialmente che ‘inguaribile’ non significa ‘incurabile’.
D’altra parte il valore di ogni vita umana risiede nella sua dignità intangibile, inalienabile e non declinabile qualitativamente durante le diverse fasi dell’esistenza, «specialmente nella fragilità della vecchiaia e della malattia».
Eppure va nella direzione opposta «la proposta della Regione Emilia-Romagna di legittimare con un decreto amministrativo il suicidio medicalmente assistito, con una tempistica precisa per la sua realizzazione, presumendo di attuare la sentenza della Corte Costituzionale 242/2019». Di qui – ribadisce con chiarezza e senza mezzi termini la Ceer – «procurare la morte, in forma diretta o tramite il suicidio medicalmente assistito, contrasta radicalmente con il valore della persona, con le finalità dello Stato e con la stessa professione medica».
Insomma, rispetto a quanti soffrono particolarmente nella fase terminale dell’esistenza terrena, «la soluzione non è l’eutanasia, quanto la premurosa vicinanza, la continuazione delle cure ordinarie e proporzionate, la palliazione, e ogni altra cosa che non procuri abbandono, senso di inutilità o di peso a quanti soffrono».
Questo vale per i non credenti che considerino alla luce della ragione il principio della dignità della persona alla base di una società veramente civile, ma ancor più per i credenti, dato il fecondo valore salvifico di ogni sofferenza vissuta in Cristo, nella misura in cui «proprio sulla Croce, nella fase terminale della esistenza, ci ha redenti e ci ha donato sua Madre, scambiando con Lei, con il discepolo amato e con chi condivideva la pena, parole e un testamento di vita unico, irrinunciabile, non dissimili a quelle confidenze che tanti cari ci hanno lasciato sul letto di morte. Il suo dolore, crudelmente inferto, accoglie ed assume ogni sofferenza umana, innestandola nel mistero di Pasqua, mistero di Morte e di Risurrezione».