Riportiamo qui di seguito il discorso integrale pronunciato dal S.E.R. il Cardinale Giovanni Battista Re, Decano del Collegio Cardinalizio, già Prefetto della Congregazione per i Vescovi della Santa Sede, durante il convegno “Eutanasia: vite da scartare? Il dovere della società di fronte alla sofferenza”, organizzato da Pro Vita & Famiglia Onlus ed Euthanasia Prevention Coalition con la collaborazione di Family Day, Centro Studi Livatino, Amci, Forum Ass. Sociosanitarie e Movimento per la Vita, presso la Sala Capranichetta dell’Hotel Nazionale, a piazza Montecitorio.
L’insegnamento della Chiesa sull’inaccettabilità dell’eutanasia era già stato chiaramente espresso dal Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium et spes. In modo più ampio e organico era stato esposto da Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica “Evangelium vitae”. Nel 1980 vi era stata già una Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ma il problema dell’eutanasia è ritornato di grande attualità in questi ultimi anni, sia per le preoccupanti legislazioni in merito di alcuni Paesi, sia per taluni protocolli medici riguardanti le situazioni di fine-vita, sia per l’aumento degli abusi.
Per questi motivi, un anno e mezzo fa (14 luglio 2020) la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato un documento dal titolo “Samaritanus bonus”, la cui caratteristica è di trattare il problema dell’eutanasia e del suicidio assistito mettendo al centro “la cura” delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita. L’idea è contenuta nel titolo stesso del documento: “sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita”
Questo importante pronunciamento della Santa Sede ha la forma di una lettera con accento fortemente pastorale e con un linguaggio comprensibile all’altezza del progresso delle scienze mediche.
Mi limito a toccare i punti principali, perché il documento è molto ampio e approfondisce molti aspetti.
- Chi soffre e si trova in situazioni estreme ha bisogno di cure cliniche e di farmaci che la scienza mette a disposizione, ma ha grande bisogno anche di amore, di affettuosa vicinanza, di essere ascoltato e di sentire parole di sostegno e di fiducia.
Proprio per sottolineare l’incomparabile importanza delle relazioni umane nella fase terminale della vita, la lettera del Dicastero della Dottrina della Fede inizia ricorrendo all’immagine del buon Samaritano, icona che esprime bene il significato del “prendersi cura” e la differenza fra il semplice “curare” e il “prendersi cura”. Se il Samaritano del Vangelo si fosse limitato a versare vino ed olio sull’uomo incontrato sul ciglio della strada e poi avesse continuato il suo viaggio, avrebbe soltanto curato. Invece egli si è realmente “preso cura” di quel malcapitato perché: ebbe compassione; si avvicinò a lui; non solo gli curò come poteva le ferite, ma, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò alla locanda vicina, si rese cura di lui e, il giorno dopo, diede due
denari all’albergatore, dicendogli: “abbi cura di lui e ciò che spenderai di più, te lo rifonderò al mio ritorno”.
Fin dalle prime battute il testo illustra l’orizzonte di senso della cura medica, la quale, pur sperimentando il limite di inguaribilità di un determinato paziente, non rinuncia, non può rinunciare, a prendersi cura della persona inguaribile.
Il termine “inguaribile” è fondamentalmente diverso da “incurabile”. Se è vero che esistono patologie inguaribili, è altrettanto vero che, pur con tanti limiti, è sempre possibile curare: alleviare il dolore, sostenere, stare accanto. Bisogna, anche nei casi senza speranza di sopravvivenza, saper riconoscere quella qualità intrinseca alla persona umana, che in termini laici si chiama dignità della vita umana e che in termini cristiani denominiamo sacralità della vita umana.
Sul frontespizio di un ospedale cattolico di tre secoli fa, vi era questa scritta: “Se sei malato, vieni e ti guariremo. Se non riusciremo a guarirti, ti cureremo. Se non sarà possibile darti altre cure, ti staremo accanto e ti consoleremo”.
Nei riguardi di un malato terminale, la prima responsabilità è la cura della vita e l’accompagnamento medico e infermieristico, ma anche un vero accompagnamento umano, affettuoso, psicologico e spirituale.
Di fronte all’impossibilità di guarire, e quindi nella prospettiva prossima della morte, è quanto mai importante stare accanto al malato, in modo che egli si senta amato. Ugualmente è importante saper dire una parola di conforto. Tale vicinanza è un segno vivente di quegli affetti, di quei legami, di quell’intima disponibilità all’amore che permettono al sofferente di sperimentare su di sé uno sguardo che lo aiuta a dare senso al tempo della malattia.
Stare accanto al malato è uno dei segni dell’amore e della speranza per lui più cari, perché la malattia fa sentire più acuto il desiderio di calore umano.
In tale vicinanza al malato non va poi dimenticato che nella mente e nel cuore delle persone sul fine della vita alberga normalmente anche la preoccupazione per coloro che lasciano: i figli, il coniuge, i genitori, gli amici. E’ una componente umana che non si può trascurare, cercando di offrire sostegno, aiuto e speranza.
Fu, questa, anche una preoccupazione di Gesù sulla croce, che prima di morire pensò alla madre che rimaneva sola e l’affidò all’Apostolo Giovanni.
In questo aspetto della vicinanza al malato terminale è centrale il ruolo della famiglia. In essa la persona si appoggia a relazioni salde. E’ essenziale che il malato non si senta un peso, ma che abbia l’affetto, la vicinanza e l’apprezzamento dei suoi cari. In questa complessa missione la famiglia ha bisogno di poter contare su aiuti e mezzi adeguati. Per questo gli Stati, riconoscendo la fondamentale funzione sociale della famiglia, devono predisporre le risorse e le strutture necessarie per questa fondamentale cellula della società. Accanto alla famiglia, sono di grande aiuto in vari casi l’istituzione degli Hospice.
In questo nostro periodo storico in cui è più facile confidare nella scienza e nella tecnica che non negli uomini, la lettera Samaritanus bonus nella prima parte mette in rilievo l’importante valore delle relazioni umane, dell’affetto e del calore umano nelle situazioni critiche della malattia e nelle fasi terminali della vita.
Per un credente poi è di insostituibile aiuto la dimensione spirituale, che dona pace alla propria coscienza. Aiutare un credente a vivere il momento supremo della vita in un contesto di accompagnamento spirituale è un atto altissimo di carità, perché di grande aiuto per l’intima serenità del malato. Il momento della morte è infatti un passo decisivo della creatura umana verso l’incontro con Dio. La Chiesa accompagna spiritualmente i fedeli in questa situazione, offrendo loro le “risorse sananti” della preghiera e dei sacramenti. In particolare il Sacramento della riconciliazione visto come l’incontro col Padre che perdona, l’Eucarestia e l’Unzione degli infermi. L’assistenza spirituale infonde fiducia e speranza in Dio al moribondo ed è di aiuto anche ai familiari nell’accettare con minore difficoltà la morte del congiunto.
- Dopo aver dedicato ampia parte all’aspetto del “prendersi cura”, tanto importante dal punto di vista della psicologia del malato, il Documento annuncia i principi dottrinali e morali fondamentali.
La vita umana – afferma - è un dono sacro e inviolabile. Solo Dio è padrone della vita e l’uomo non può sostituirsi a Lui e arrogarsi di poter decidere al posto di Dio il momento della morte.
La grandezza e la preziosità della vita umana vanno difese senza cedimenti e senza compromessi. In qualunque condizione infatti l’uomo e la donna si trovino, mantengono la dignità di essere creati a immagine e somiglianza di Dio.
La sacralità e l’inviolabilità della vita umana è una verità basilare della legge morale naturale ed un fondamento essenziale dell’ordine giuridico; un valore percepibile dalla retta ragione e anche confermato dalla fede.
Non si può mai scegliere di attentare contro la vita di un essere umano, nemmeno nel caso in cui questi lo chiede.
Sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa riconoscere la sua autonomia, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dalle sofferenze e soprattutto significa disconoscere il valore della vita umana.
“Di più, si decide al posto di Dio il momento della morte”. Questo mettersi al posto di Dio rappresenta uno dei deliri più gravi del nostro tempo. Si può certamente discutere su come affrontare il soffrire; si può e si deve fare sempre quanto possibile per eliminare il dolore, ma non si può disporre della vita altrui, anche se si trova nello stato finale.
Certo, nel nostro tempo vi sono al riguardo forti condizionamenti, fra i quali l’uso equivoco del concetto di “morte degna” e anche di “qualità della vita”, che limitano la capacità di cogliere il valore profondo e intrinseco di ogni vita umana. Altro ostacolo a percepire la sacralità della vita umana è una erronea comprensione della “compassione”, cioè si giunge a pensare che sia da considerare compassionevole l’aiutare il paziente a morire mediante l’eutanasia o il suicidio assistito. Ugualmente non aiuta l’individualismo crescente nella nostra società, che causa un impoverimento nelle nostre relazioni personali.
In breve possiamo dire che l’insegnamento del Magistero afferma con chiarezza l’inammissibilità dell’eutanasia e del suicidio assistito.
La Chiesa al riguardo ritiene, senza ombra di dubbio, di dover ribadire che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana, perché con tale atto si sceglie di causare direttamente la morte di un essere umano innocente.
Anche se lo scopo è di eliminare il dolore, l’eutanasia è in sé un atto intrinsecamente ingiusto e inaccettabile, in qualsiasi occasione o circostanza. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio e insegnata dal Magistero ordinario e universale della Chiesa.
Qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata ad un tale atto è un peccato grave contro la vita umana. L’eutanasia e il suicidio assistito sono un atto omicida che nessun fine può legittimare.
Il rispetto che dobbiamo avere per la vita di un altro essere umano è lo stesso che si deve avere per la propria esistenza. Una persona pertanto che sceglie con piena libertà di togliersi la vita rompe la sua relazione con Dio e con gli altri.
Il suicidio assistito ne aumenta la gravità, in quanto rende partecipe un altro della violazione della legge di Dio. Aiutare un suicida è un’indebita collaborazione ad un atto illecito: non è un aiuto al bene del malato, ma un aiuto a causargli la morte.
Si tratta, dunque, di una scelta sempre sbagliata.
Invece di indulgere ad una falsa condiscendenza, si deve offrire al malato l’aiuto indispensabile per uscire dalla sua disperazione.
Va anche tenuto presente che l’esperienza conferma che le suppliche dei malati gravi, che talvolta invocano la morte, sovente non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia. Spesso esse sono una forma di angosciate richieste di aiuto e di affetto.
L’esperienza insegna che quando l’ammalato si sente circondato dalla presenza amorevole umana supera più facilmente la depressione e non cade nell’angoscia.
La capacità di chi assiste una persona nella fase terminale della vita deve essere pertanto quella di “saper stare” accanto, di consolare e, se si tratta di un credente, di sostenere la fede. Per chi crede l’apertura dell’orizzonte di vita eterna aiuta ad affrontare il “fine vita” in un modo consono alla dignità umana ed apre alla speranza.
- Un altro punto da considerare è l’obbligo di escludere l’accanimento terapeutico.
Tutelare la dignità del morire significa escludere sia l’anticipazione della morte sia il dilazionarla col cosiddetto “accanimento terapeutico”. La medicina odierna infatti dispone di mezzi in grado di ritardare la morte, mantenendo in vita artificialmente, ma senza un reale beneficio per il paziente.
L’insegnamento della Chiesa afferma con chiarezza che, nell’imminenza di una morte inevitabile, è lecito prendere, in scienza e coscienza, la decisione di rinunciare a straordinari trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali di sostegno vitale dovute ad un ammalato, cioè le cure di base: la nutrizione, l’idratazione, la termoregolazione, ecc... Ogni atto medico deve sempre avere ad oggetto e nelle intenzioni di chi agisce l’accompagnamento della vita.
- Importanza delle cure palliative. L’opportuna terapia contro il dolore è sempre doverosa ed è auspicabile ogni impegno in merito. La medicina palliativa costituisce uno strumento prezioso e irrinunciabile per accompagnare il paziente. Le “cure palliative” hanno come obiettivo di alleviare le sofferenze nella fase finale e di assicurare al tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano dignitoso.
- Un altro tema toccato nel Documento è quello dell’obiezione di coscienza da parte degli operatori sanitari e delle istituzioni sanitarie cattoliche.
Dinnanzi a leggi che legittimano – sotto qualsiasi forma di assistenza medica – l’eutanasia o il suicidio assistito, si deve sempre negare qualsiasi cooperazione. Non è mai lecito per nessuno collaborare con simili azioni immorali o permettere di diventare complici.
Tali contesti costituiscono un ambito specifico per la testimonianza cristiana, nei quali “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”(At.5,29).
In conclusione, l’eutanasia, cioè un intervento che di sua natura mira a porre termine alla vita di una persona malata, e il suicidio assistito sono un male morale, anche se il fine è di porre fine ai dolori. Dal punto di vista della legge di Dio, l’eutanasia è sempre un omicidio o un suicidio.
Dio ha riservato a sé la decisione di quando la vita di una persona umana debba avere termine. Di conseguenza a nessuno è consentito moralmente di porre fine alla propria esistenza; ugualmente a nessuno è consentito collaborare a porre fine all’esistenza di un’altra persona, anche se lo scopo è di porre fine ai dolori: non è mai un atto di carità verso il prossimo, ma un atto grave contra la legge che Dio ha scritto nella natura umana.
La “Samaritanus bonus” esprime con chiarezza questi principi e, in pari tempo, è una vibrante esortazione a stare accanto alle persone nelle ore della Croce, prendendosi cura di loro.
Nella tappa finale della vita, il malato, oltre che dei mezzi che la medicina offre, ha bisogno di cuore e di calore umano. Prendersi cura è medicare la fragilità di chi soffre, sostenendolo nell’affrontare la sua situazione difficile; è donarsi all’altro, concentrando l’attenzione sulla persona del malato attraverso l’ascolto, l’accoglienza, il dialogo affettuoso e la vicinanza.