Il 22 aprile scorso è partita, ad opera di due distinti comitati promotori che operano in sinergia, la raccolta di firme per lanciare tre nuovi referendum. Perché possano essere ammessi è necessario raccogliere entro la metà di luglio almeno 500.000 firme valide, autenticate da soggetti abilitati e certificate dai comuni nelle cui liste elettorali i singoli firmatari siano iscritti. Non sarà impresa facile.
Due di essi sono complementari e vogliono colpire, attraverso l’abrogazione di norme diverse, l’ulteriore coinvolgimento diretto dell’Italia, attraverso il continuo invio di armi, nell’escalation militare in Ucraina. Il terzo mira invece a contrastare il depotenziamento della sanità pubblica.
Per dare la parola al popolo onde raggiungere, come effetto ultimo, tali scopi attraverso la consultazione referendaria, era necessario individuare specifiche norme di cui proporre l’abrogazione come effetto immediato in caso di vittoria dei sì, perché è solo così che funziona l’istituto del referendum abrogativo.
Vediamo dunque i tre quesiti proposti, che sono formulati in modo da rispondere a questa insopprimibile esigenza “tecnica”, incominciando dai due contro l’escalation militare.
Richiesta di referendum abrogativo (23A01448) annunciata nella Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.53 del 03-03-2023.
«Vuoi tu che sia abrogato l’art. 1 del decreto-legge 2 dicembre 2022, n. 185 (Disposizioni urgenti per la proroga dell’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle Autorita’ governative dell’Ucraina), convertito in legge n. 8 del 27 gennaio 2023 nelle parole: “E’ prorogata, fino al 31 dicembre 2023, previo atto di indirizzo delle Camere, l’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorita’ governative dell’Ucraina, di cui all’art. 2-bis del decreto-legge 25 febbraio 2022, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 aprile 2022, n. 28, nei termini e con le modalita’ ivi stabilite.”?»
Spiegazione del quesito: si vuole far cadere la norma specifica che ha prorogato dal 31.12.2022 al 31.12.2023 l’autorizzazione all’invio di armi in Ucraina.
Inizialmente tale invio era stato presentato dalla politica, praticamente nella sua totalità, come il mezzo più efficace per dissuadere la Russia dal coltivare il conflitto e quindi auspicabilmente per raggiungere la pace, e si era invocato il diritto di autodifesa dell’Ucraina come paese aggredito. Si stima che tra aiuti diretti e rincari subiti questa posizione sia costata all’Italia ad oggi più di 100 miliardi di euro.
Si erano però poco per volta levate delle voci dalla società civile che contrastavano questa narrazione evidenziando in sintesi che: anche le popolazioni russofone del Donbass, perseguitate e bombardate dal 2014 nel disinteresse generale, avevano il diritto alla autodeterminazione ed alla loro legittima difesa; che non era in vigore alcun trattato con l’Ucraina, estranea alla NATO, che obbligasse l’Italia ad assumere un ruolo attivo a suo favore, così come non l’aveva mai assunto a favore di altri paesi come la Palestina, lo Yemen e tanti altri paesi aggrediti nel mondo; che l’inferiorità militare dell’Ucraina di fronte al colosso russo non giustificava la fornitura di armamenti, perché le armi uccidono ed esasperano le posizioni, tanto è vero che anche quando due bambini litigano, non si dà un coltello al più piccolo perché si difenda; che se c’è una rissa, non si blocca solo chi ha dato l’ultimo cazzotto; che la deterrenza dell’invio di armamenti avrebbe potuto forse funzionare nei confronti di un paese dotato di modeste risorse militari, ma giammai nei confronti di una potenza militare come la Russia; che nel Vangelo di Luca, 14, 31-32 si legge infatti: “quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace”; che non ha senso inviare armi ad ogni costo, e cioè anche a costo di scatenare una terza guerra mondiale e di passare al conflitto atomico; che gli Stati Uniti non possono pretendere di fare guerra alla Russia fino all’ultimo ucraino ed a spese degli alleati europei; che la strada per la pace deve essere un’altra.
Adesso è passato quasi un anno e mezzo e si può fare un consuntivo: ad avviso di chi scrive, è sotto gli occhi di tutti che la scelta del supporto militare è stata fallimentare: ha causato un numero impressionante di morti da entrambe le parti, ha drenato ingenti risorse che ben avrebbero potuto essere destinate ad altro (dalla sanità alle politiche a favore della vita, delle famiglie numerose, dei disabili, del lavoro, ecc.) impoverendo tutti, ha bloccato molti scambi commerciali e di conseguenza la crescita economica, non ha portato alla pace ma alla recrudescenza del conflitto rendendo sempre più serio e vicino il rischio di una terza guerra mondiale con armi nucleari; addirittura ha permesso a Zelensky di montarsi la testa al punto di rifiutare la mediazione della Santa Sede. Ci hanno guadagnato solo i produttori di armi e, in prospettiva, coloro che si sono candidati alla ricostruzione.
Il quesito, proposto da Generazioni Future (https://generazionifuture.org/il-significato-del-referendum-contro-la-guerra-e-a-favore-della-sanita-pubblica/) , non suppone quindi di parteggiare per l’uno o per l’altro schieramento, ma vuole fare dire al popolo italiano se quella seguita nel caso della guerra in Ucraina sia la strada giusta da percorrere per arrivare alla pace.
Tecnicamente, se il referendum venisse ammesso non potrà tenersi prima del 2024, quando la attuale scadenza dell’autorizzazione all’invio di armi prorogata al 31.12.2023 sarà già decorsa; ma se l’esito del referendum dovesse essere positivo, per i partiti non sarebbe politicamente più possibile ignorare la volontà del popolo, che secondo i sondaggi è in maggioranza contrario all’escalation militare, introducendo altre leggi che autorizzino ulteriori finanziamenti della guerra.
Richiesta di referendum abrogativo (23A01743) annunciata nella “Gazzetta Ufficiale” Serie generale n. 64 del 16/3/2023.
«Volete voi che sia abrogato l’art. 1, comma 6, lettera a), legge 09 luglio 1990, n. 185, rubricata “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”, e successive modificazioni (che prevede: “6. L’esportazione, il transito, il trasferimento intracomunitario e l’intermediazione di materiali di armamento sono altresì vietati: a) verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i princìpi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere” limitatamente alle parole “o le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere”?».
Spiegazione del quesito: si vuole far cadere la norma che consente in via generale di inviare materiali di armamento a paesi in guerra (e non solo all’Ucraina), ove l’invio non sia già reso possibile da trattati internazionali, con una semplice delibera del Consiglio dei Ministri previo “parere” non vincolante delle Camere.
Il quesito muove dalla considerazione che ai sensi dell’art. 11 della nostra Costituzione “L’Italia ripudia la guerra come …mezzo di risoluzione delle controversie internazionali..” Ed infatti il comitato promotore di questo quesito referendario, il cui presidente è il prof. Enzo Pennetta, si chiama proprio “Comitato Ripudia la Guerra” (https://referendumripudialaguerra.it/).
Alla luce di tale norma l’invio di armi a paesi in conflitto appare in linea generale incompatibile col ripudio della guerra, perché le armi servono proprio ad alimentare la guerra; di conseguenza, se si dovesse fare qualche eccezione, non può essere fatta “alla leggera” con una semplice delibera di 5 minuti del Consiglio dei Ministri di turno, che allo stato può liberamente disattendere il parere del parlamento, ma deve richiedere una seria ponderazione e la manifestazione di volontà quanto meno del Parlamento che impegni ogni parlamentare nei confronti del popolo italiano che rappresenta.
Se questo referendum avesse successo, ogni decisione futura volta a inviare armi in teatri di guerra richiederebbe una legge formale e dunque la piena assunzione di responsabilità politica dei singoli parlamentari, chiamati a rispondere del loro operato prima di tutto ai cittadini che li hanno eletti.
Passiamo adesso al terzo quesito, che si oppone al depotenziamento in atto della sanità pubblica attraverso il coinvolgimento di privati in conflitto di interesse nelle politiche sanitarie.
Richiesta di referendum abrogativo (23A01449) annunciato sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.53 del 03-03-2023.
«Vuoi tu abrogare l’art. 1 (Programmazione sanitaria nazionale e definizione dei livelli uniformi di assistenza), comma 13, decreto legislativo n. 502/1992 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Gazzetta Ufficiale n. 305 del 30 dicembre 1992 – Supplemento ordinario n. 137)) limitatamente alle parole “e privati e delle strutture private accreditate dal Servizio sanitario nazionale”?»
Spiegazione del quesito: Non si tratta affatto di una opposizione pregiudiziale al privato, come qualcuno teme, perché accreditamenti e convenzioni con strutture private non sono messi in discussione dal quesito.
La norma oggetto della proposta di abrogazione riguarda solo la partecipazione alla "cabina di regia" dove viene programmata e stabilita la politica sanitaria a livello regionale, fissando priorità e stanziamenti. Tale programmazione deve essere esclusiva responsabilità del settore pubblico e libera da conflitti di interesse.
In queste decisioni di politica sanitaria i privati sono invece chiaramente in conflitto di interessi, perché tendono a far privilegiare le aree di intervento dove sono presenti loro, con la conseguenza che il servizio pubblico viene ulteriormente depotenziato nei settori non redditizi per i privati.
Il quesito mira in definitiva a contrastare la tendenza alla privatizzazione dei servizi per la salute che lascia scoperti quelli non redditizi per i privati, ed a prevenire il conflitto di interessi nell’allocazione degli ingenti fondi pubblici per la sanità. A tal fine si vuole e cancellare una previsione di legge per cui le Regioni, cui compete la gestione del sistema sanitario a livello territoriale, possono ammettere la partecipazione nella programmazione della sanità anche di soggetti privati i quali, essendo coinvolti nella gestione, si trovano così in conflitto di interessi.
In conseguenza di questo conflitto “endemico”, le ingenti risorse pubbliche spese per la sanità’ rischiano di finire lontane da quegli ambiti in cui i ritorni per i privati sono più’ limitati. Fra questi, come tragicamente confermato durante la pandemia, le terapie intensive e la medicina di prossimità.
Anche al di là dell’ emergenza pandemica, la conseguenza del conflitto di interessi è sotto gli occhi di tutti: l’accesso alle cure, che dovrebbe essere gratuito e garantito in modo efficiente a tutti i cittadini, a prescindere dal loro reddito, è divenuto difficoltoso per coloro che non riescono a sostenere i costi per cure private o semi-private (in convenzione).
Per di più è nozione di comune esperienza che ci sarebbe bisogno di maggiori risorse investite nella sanità pubblica, che sarebbero reperibili facilmente ove ad es. si riducessero le spese per sostenere la guerra in corso in Ucraina. Vi è quindi un collegamento economico e finalistico tra i tre quesiti.
I temi oggetto dei quesiti referendari non sono affatto indifferenti per chi vuole difendere la vita e la famiglia.
Innanzitutto la guerra è causa di morte, distruzione e lutti e impoverimento nelle famiglie: civili morti, soldati che non tornano a casa dal fronte o tornano mutilati, famiglie rimaste senza casa e senza sostentamento. La vita va a braccetto con la pace, perché solo con la pace c’è vita e speranza, con la guerra tutto è perduto.
Inoltre non è affatto indifferente che ingentissime risorse pubbliche siano spese per sostenere un conflitto armato, che ha per di più ricadute negative sulla nostra economia, oppure siano destinate alla difesa della vita nascente, alle famiglie numerose o in difficoltà , alla sanità, alle pensioni, al lavoro, ai trasporti, alla scuola, al territorio, ecc.
Firmare per i referendum in questo momento è un atto di responsabilità non impegnativo, perché vuol dire solo cercare di consentire al popolo italiano di esprimersi direttamente e democraticamente sui quesiti. Si resta però liberi, se raggiungeranno il numero necessario di firme e verranno ammessi, di votare sì oppure no oppure astenersi. Nel frattempo, se verranno ammessi, ci sarà tutto il tempo per approfondire ulteriormente pro e contro.
Eppure è passato un mese dall’avvio della raccolta firme e la gente non sa ancora nulla o quasi dei referendum e della loro importanza. I mezzi di comunicazione del mainstream, pronti ad esaltare la democrazia e la Costituzione, non ne parlano. La guerra e la ricostruzione sono un business troppo grosso. Per informarsi bisogna affidarsi al passaparola e andare a cercare canali ”dei cittadini” come ad es. Byoblu che dedica al tema vari approfondimenti ( ad es. Il Referendum no guerra spiegato bene e facile, da condividere a tutti - YouTube)
I siti dei comitati promotori sono aggiornati continuamente ed indicano dove e quando si può firmare. In genere presso i comuni ed i municipi. Ma anche nei banchetti per strada nelle grandi città che di solito sono presenti durante i week end. Li trovate a questi link
-https://referendumripudialaguerra.it/
Per chi ha una firma digitale è anche possibile firmare on line con una piccola spesa come spiegato qui https://generazionifuture.org/il-significato-del-referendum-contro-la-guerra-e-a-favore-della-sanita-pubblica/firma-i-referendum-online/
In una situazione che sembra senza vie di uscita c’è un treno per la pace che passa. Vogliamo perderlo?
a cura di Carlo Cigolini