Non sono bastati anni di servizi televisivi strappalacrime, né le varie pressioni eutanasiche dei media, l’approvazione di una legge e neppure lo stanziamento di 2 milioni di euro per un registro unico: niente da fare, agli italiani il testamento biologico continua a non interessare. Di più: proprio lo ignorano e, in fondo, stanno bene lo stesso. A metterlo nero su bianco, una recente indagine commissionata da Vidas, un’associazione che offre assistenza completa e gratuita ai malati terminali, e presentata nei giorni scorsi a Milano, in occasione di quello che doveva essere il primo “compleanno” delle Dichiarazioni anticipate di trattamento (Dat). Un “compleanno” decisamente amaro, verrebbe da commentare.
Infatti, la citata ricerca ha messo in luce come il 70% degli italiani non conosca le Dat o ne abbia un’idea ma molto vaga, quando ce l’ha. Più precisamente, appena il 28% degli intervistati, al netto di opinioni favorevoli o contrarie, ha dichiarato di sapere di cosa si parla, quando si parla di biotestamento, mentre il 18 per cento non ne sa nulla e il 54 per cento ne ha sentito parlare solo superficialmente. Numeri, anche se domenica scorsa il giornale Libero ha parlato di 992.000 Dat già sottoscritte, stanno facendo i soliti noti alla necessità di promuoverle maggiormente, ma che in realtà sono semplicemente lì a confermare come quella sul “fine vita” sia una battaglia di nicchia, cara solamente al mondo radicale e ai mass media amici, ma nei fatti ben poco sentita dalla popolazione.
Del resto, va pure detto che l’osannato biotestamento è qualcosa di vecchio e clinicamente già superato. Il primo fu infatti presentato nel 1967 dall’avvocato Luis Kutner (per conto dell’Euthanasia Society of America, coincidenza) e la letteratura scientifica, dopo averne messo in luce innumerevoli limiti pratici – la difficoltà di raccogliere un consenso realmente informato dal paziente, la mancanza di attualità di volontà che invecchiano nel momento esatto in cui vengono sottoscritte nonché la difficoltà di traduzione pratica di Dat spesso troppo vaghe e generiche – , da tempo denuncia la necessità di andare oltre il testamento biologico.
È infatti proprio l’esperienza di quei Paesi dove siffatte Dat risultano disponibili ai pazienti da molti anni, che ha portato i medici – secondo quanto si leggeva già nel 2005, in una pubblicazione apparsa sul Journal of the American Medical Association – a condividere la necessità di «superare le direttive anticipate per soddisfare veramente i bisogni dei pazienti assumendo decisioni difficili». Ne consegue che, nel momento in cui gli italiani, come stanno facendo, ignorano il biotestamento, non dimostrano affatto ritardo ma avanguardia. Di certo, molta più avanguardia di chi pensa che burocratizzare la fase di “fine vita” possa costituire un progresso.
In ogni caso, se proprio si vuole informare i cittadini di qualcosa di importante, è meglio che ci si dia da fare per informarli dell’esistenza di una vera legge sul “fine vita”, che non è certo quella mortifera ed eutanasica delle Dat bensì quella entrata in vigore il 15 marzo 2010, la n.38 per le «Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore». Una norma decisamente importante quindi ma – secondo un’analisi condotta su oltre 13.300 schede compilate da pazienti e familiari – ignorata dal 63% delle persone interpellate. La vera urgenza è dunque questa: promuovere e far conoscere le cure palliative e la terapia del dolore. Viceversa, il biotestamento può tranquillamente starsene in soffitta. C’è da scommettere che nessuno, ma proprio nessuno, ne sentirà la mancanza.
Giuliano Guzzo