Cosa prevede il Testo Unico sul Suicidio assistito, la cui discussione inizierà il 13 dicembre il suo iter in Aula? Per farsi un’idea sulla questione, è fondamentale chiederselo e dare, di conseguenza, un’occhiata a quello che contiene tale progetto legislativo, denominato “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”. Dal punto di vista tecnico, l’articolato – che aspira a dare veste ordinamentale alla proceduta per il suicidio medicalmente assistito già delineata dalla Consulta con la sentenza n. 242/2019 -, si suddivide in meno di una decina di articoli, appunto. I più significativi di questi articoli, quelli sui quali è davvero doveroso soffermarsi, sono i primi cinque, contenenti concetti e profili che poi vengono declinati anche dalle altre disposizioni. Vediamoli.
L’articolo 1 precisa l’oggetto della norma, che è quello di disciplinare «la facoltà della persona affetta da una patologia irreversibile o con prognosi infausta di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente ed autonomamente alla propria vita». Già da questo primo punto, quanto meno sotto il profilo bioetico, emerge una criticità a dir poco vistosa, che è la seguente: quale è il fondamento che avrebbe «la facoltà di richiedere assistenza medica, al fine di porre fine volontariamente ed autonomamente alla propria vita»?
Ha senso porsi questo dilemma sia perché è tutto da dimostrare – sotto un profilo etico, sempre – che esista un diritto a porre fine «alla propria vita», sia perché questa norma, ancorché in modo indiretto, introduce già un pesante obbligo in capo alla società e allo Stato e, nello specifico, al Sistema sanitario nazionale, ossia quello di fornire «assistenza medica» ad un aspirante suicida; il che, nonostante il contenuto dell’articolo 5 (su cui ci soffermeremo) è vero e proprio controsenso sia se si pensa alla ultramillenaria tradizione ippocratica – che orienta i medici alla vita e non alla porte – sia guardando al nostro ordinamento, che resta ancorato al principio di indisponibilità della vita umana.
L’articolo 2 conferma ed esplicita il senso del primo, ricordando che la morte assistita dovrà avvenire «con il supporto e la supervisione del Servizio Sanitario Nazionale». Su questo, valgono le criticità appena ricordate.
L’articolo 3 è molto importante perché è quello che fissa i requisiti per chiedere la morte assistita, «facoltà» che sarà attivabile da «persona maggiore di età, capace di prendere decisioni libere e consapevoli ed affetta da sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili». «Tale persona», continua l’articolo, «deve altresì trovarsi nelle seguenti condizioni: a) essere affetta da una patologia irreversibile o a prognosi infausta oppure portatrice di una condizione clinica irreversibile; b) essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; c) essere assistita dalla rete di cure palliative o abbia espressamente rifiutato tale percorso assistenziale».
Sappiamo che, nella fase di approvazione di questo articolo in Commissione, c’è stata una significativa modifica dello stesso, dato che la sostituzione di una vocale ha fatto sì che, per chiedere di morire, bisognerà essere affetti da «sofferenze fisiche e psicologiche ritenute intollerabili». La «e» al posto della «o» rende i requisiti un po’ più stringenti – non basterà infatti la sola sofferenza psicologica per chiedere di morire -, anche se essendo le sofferenze in parola quelle «ritenute intollerabili» dal soggetto, restano enormi margini di soggettività alla base dei requisiti in parola.
L’articolo 4 recita: «La richiesta di morte volontaria medicalmente assistita deve essere informata, consapevole, libera ed esplicita. La richiesta può essere revocata in qualsiasi momento senza requisiti di forma e con ogni mezzo idoneo a palesarne la volontà». Anche in questo caso, si tratta di disposizioni conseguenti alle precedenti. L’aspetto maggiormente critico di questo passaggio – ma che riguarda pure tutti gli altri, in realtà - è che non è previsto che chi richiede la morte assistita abbia potuto sperimentare le cure palliative, che sono, come noto, il più formidabile antidoto al desiderio di farla finita.
Come il 3, anche l’articolo 5 in Commissione è stato emendato con l’aggiunta del 5bis, norma di peso perché prevede l’obiezione di coscienza. «Il personale sanitario ed esercente le attività sanitarie ausiliarie», recita la norma introdotta, «non è tenuto a prendere parte alle procedure per l'assistenza alla morte volontaria medicalmente assistita disciplinate dalla presente legge quando sollevi azioni di coscienza con preventiva dichiarazione. La dichiarazione dell'obiettore deve essere comunicata, entro tre mesi dalla data di adozione del regolamento, al direttore dell'azienda sanitaria locale o dell'azienda ospedaliera, nel caso di personale dipendente».
Se questa previsione dell’obiezione di coscienza, voluta dal centrodestra – e mal vista dal mondo radicale, alla pari di quella che prevedeva la sola sofferenza psichica come criteri per chiedere la morte -, rende meno terrificante il testo, ciò non toglie come esso, nel suo insieme, sia inaccettabile. Anche perché un altro pesante e generale limite di tutto questo disegno di legge è l’assenza – in tutti gli articoli – di ogni riferimento alla condizione terminale. Significa che potrà chiedere e ottenere la morte, se passasse questo ddl, chiunque abbia sì determinati requisiti gravi, ma anche, potenzialmente, la possibilità di restare al mondo ancora del tempo; magari pure qualche anno.
Basta questo piccolo dettaglio, unitamente a quelli già esplicitati, per capire che il testo unico sul suicidio assistito, pur leggermente migliorato in Commissione rispetto alla forma originaria, non solo non è una buona norma, ma è una proposta irricevibile, disumana e nemica sia della missione medica sia della solidarietà. Non resta che augurarsi che anche i nostri parlamentari se ne accorgano.