Una storia drammatica ma con un epilogo pieno di speranza, quella di Roberto Panella che nel lontano luglio del 2007, mentre era sul motorino con la sua ragazza, è stato travolto da un’automobile, nei pressi di Frascati, a due passi della Capitale. Trasportato d’urgenza all’ospedale di San Giovanni, subisce diversi tipi di operazioni per fermare le emorragie celebrali. Nonostante fosse in coma e i medici non gli avessero dato nessuna speranza, dopo tre mesi, si risveglia. Sua madre, Manola Ciacci, sempre al suo fianco, ci racconta quei momenti drammatici e l’inaspettato, positivo epilogo.
Non avete mai avuto una parola di speranza dai medici…
«No. Non solo, appena mio figlio è arrivato in ospedale, volevano farmi firmare l’autorizzazione per la donazione degli organi. Un segnale non certo di incoraggiamento e speranza. Ovviamente mi sono rifiutata e anziché perdere la speranza e abbandonarlo gli facevo ascoltare la musica per stimolarlo e anche in quei momenti ho ricevuto una bella batosta: un’infermiera, piuttosto giovane e carina, mi si è avvicinata dicendomi che era uno sforzo totalmente inutile, dato che mio figlio era morto. Io le ho risposto con indignazione. D’altro canto, però, c’è stato un infermiere, sempre al San Giovanni, che si è rivelato l’opposto. Il suo nome è Fabio Brunetti e si sforzava tutti i giorni, con me, di far riprendere coscienza a Roberto. Ricordo, invece, un medico dagli occhi grigi e lo sguardo di ghiaccio, che mi dava risposte davvero fredde e senza speranza, mai una parola buona o di incoraggiamento ho sentito da lui».
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Roberto in passato ha dichiarato che essere lasciati soli è ben peggiore dello stesso dramma fisico. È così?
«Il dolore arriva quando tutti spariscono quando accadono certe disgrazie. Ora gli amici di mio figlio si contano sulle dita di una mano. Persino la fidanzata l’ha abbandonato lasciandolo qualche tempo dopo con un sms. Il distacco dei medici è dovuto spesso al fatto che si evita di nutrire un’illusione nei parenti, per paura che se il paziente muore, poi ci si arrabbi col personale sanitario. Penso comunque che la vicinanza psicologica nei confronti del malato, possa aiutarli a guarire prima. E’ come quando si dà una pacca sulla spalla a qualcuno: chi la riceve avverte il calore di un gesto di incoraggiamento. Io cercavo continuamente il contatto con mio figlio, facendo con lui un gioco con le dita, finché, a furia di muovergli la mano, un giorno si è risvegliato».
Ha avuto mai la sensazione che suo figlio fosse semi cosciente, durante il coma?
«A volte muoveva gli occhi, ma i medici dicevano che si trattava di un riflesso incondizionato. Tuttavia vedere che gli occhi si muovevano sotto le palpebre mi dava l’idea e la speranza che Roberto volesse tornare. Quando si è risvegliato ha cominciato a parlare in inglese, cosa stranissima, dato che a scuola era una schiappa in tutte le materie, inoltre mi ha raccontato che mentre usciva dal coma ha visto un tunnel sulla cui soglia c’era una persona che lo chiamava invitandolo ad uscire».
Eppure, la risposta che lo Stato sembra voler dare alla sofferenza, con il Ddl Bazoli , è quella di spingere il paziente verso la morte…
«Purtroppo c’è gente che considera l’eutanasia meglio della cura, io non la penserò mai così. Già è difficile mantenere alta la speranza, guardando i propri parenti versare in condizioni gravi. Ho visto gente uscire dalla terapia intensiva, in lacrime. Al contrario è importante credere nella speranza che il proprio parente possa guarire e questi disegni di legge non aiutano certo in questo senso».
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