La differenza tra guarigione e cura non è solo una sottigliezza linguistica per filologi, bensì una distinzione sostanziale gravida di risvolti sul piano pratico e dunque etico-morale.
Lo testimonia drammaticamente il tragico epilogo della vita della piccola Indi, il cui male è – per le conoscenze mediche attuali – “inguaribile”, ma che è stata giudicata anche “incurabile” dai medici e dai giudici inglesi, e dunque meritevole di morte.
Anche se guarigione e cura non sono affatto sinonimi, i giudici e i medici non hanno perso tempo (anche perché il tempo è denaro) in sottilizzazioni linguistiche arrogandosi senza scrupoli un potere non proprio, un potere di vita o di morte.
Nel caso di specie, per i britannici, Indi era sia inguaribile che incurabile e, come lei, lo sarebbero tra gli altri in modo particolare i tanti malati in stato vegetativo (intenzionalmente definito “permanente” per non lasciar spazio ad alcuna speranza di guarigione, e non “persistente”, quale è in effetti considerato sul piano scientifico). Il motivo è semplice: prendersi cura costa.
Per il sistema sanitario, poi, gli “inguaribili” richiedono un esborso economico notevole. Perciò, dal punto di vista economico, meglio sarebbe che essi siano dichiarati de facto anche incurabili.
D’altra parte perché uno Stato dovrebbe continuare a curare (o meglio a pagare per) chi ha aspettative di guarigione quasi nulle? Eppure una società civile dovrebbe tutelare innanzitutto il diritto alla vita, in specie quella più debole e fragile dei malati in fase terminale. La tutela della dignità della persona dal concepimento alla morte naturale dovrebbe essere in cima all’agenda politica. E invece si ritrovano eutanasia e aborto terapeutico (nel paradosso tragico di un aborto quale “soluzione di cura”, ove la terapia è l’uccisione del figlio). Al contrario, bisogna tutelare e custodire sempre il malato nella sua dignità, sia egli un feto, un bambino, un anziano gravemente ammalato o in fase terminale.
Supportare meccanicamente le consuete funzioni fisiologiche del mangiare, bere e respirare non comporta un’attuazione di terapie sproporzionate semplicemente perché non si tratta di terapie. È un prendersi cura che potrebbe essere assimilato, coi dovuti distinguo, a quello di un paziente in rianimazione o di un neonato non ancora in grado di svolgere autonomamente, e magari soltanto temporaneamente a causa di una malattia, una o più di tali funzioni fisiologiche.
Di qui l’unica posizione razionalmente fondata in materia è quella di ripudiare ogni forma di accanimento terapeutico o di deriva eutanasica e nel contempo scongiurare un abbandono terapeutico che provochi come diretta conseguenza la morte del paziente. Insomma, anche quando la guarigione è impossibile o improbabile, l’accompagnamento medico-infermieristico, è un dovere ineludibile, poiché l’opposto costituirebbe un disumano abbandono del malato.
Che il prendersi cura dell’altro sia una prerogativa peculiare dell’essere umano fin dal suo abitare la terra non lo manifesta solo l’operare del buon samaritano della parabola evangelica ma lo rilevano anche – e religiosi non erano – personaggi quali Battiato in una celebre canzone e il filosofo Heidegger, il quale fa della cura (Sorge) l’esistenziale per eccellenza dell’Esser-ci (Da-sein). D’altra parte, per dirla con Alessandro D’Avenia, «non ci prendiamo cura degli altri perché li amiamo, bensì impariamo ad amarli se ci prendiamo cura di loro».