Aldo Bova sarà tra i relatori di punta al convegno Il dovere della società di fronte alla sofferenza, in programma a Roma il prossimo 9 febbraio e promosso da Pro Vita & Famiglia. Ortopedico e traumatologo, il professor Bova, è presidente del Forum Sociosanitario e dell’Associazione Nazionale Ortopedia e Traumatologia Geriatrica. A Pro Vita & Famiglia, Bova ha anticipato una parte dei contenuti del suo intervento, ribadendo che, alla radice dell’indisponibilità della vita, c’è l’imprescindibilità delle relazioni umane.
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Professor Bova, di cosa parlerà al convegno promosso da Pro Vita & Famiglia?
«Ribadirò innanzitutto che, naturalmente, la vita è un bene indisponibile. Il punto è che le persone non sono padrone della propria vita. Noi nasciamo e viviamo in relazione con gli altri. Ognuno di noi cresce e si sviluppa già nell’utero della madre, con la quale, attraverso il cordone ombelicale, si instaura la prima relazione. Poi, dal momento che inizia la nostra vita sulla terra, iniziamo a venire a contatto con tutti gli altri, relazionandoci con la natura e con la comunità che ci sta attorno. Entriamo in relazione con nostro padre, con i nostri fratelli, poi con nostra moglie o nostro marito, con i nostri cari, i primi a cui rivolgiamo quando siamo malati. Quindi, dire che una persona sia dotata di un’autodeterminazione totale come fatto insito della propria natura, è un concetto, a mio parere, completamente errato».
Questo ragionamento come si innesta nei concetti di sofferenza e di accompagnamento alla morte?
«Con il fatto che, non essendo io padrone della mia vita, non posso togliermela. La vita è un dono del Padreterno (se siamo credenti) o della natura. Quindi, parlare di eutanasia, di suicidio assistito o di diritto a morire non ha senso in una comunità in cui le persone vivono unite e hanno bisogno di darsi una mano reciprocamente».
In termini medici concreti come ci si aiuta nella sofferenza?
«Il sofferente ha bisogno di essere curato, trattato e, nei limiti del possibile, guarito. Perché ciò avvenga, la società civile e lo Stato devono determinare le condizioni per assistere colui che è al tramonto della sua vita e che prova sofferenze terribili. Lo strumento sono gli hospice che prestano le cure palliative, per le quali sono necessari specialisti di notevole esperienza, che abbiano ricevuto una formazione accademica adeguata. La condizione di sofferenza richiede farmaci palliativi con dosaggi molto precisi, dopodiché il medico deve valutare se il paziente vada messo in una condizione di incoscienza o meno. Il tutto va fatto, tenendo conto dei rapporti del paziente con la famiglia con cui, a sua volta, il medico palliativista deve interloquire. Nonostante la legge 38/2010 obblighi le strutture sanitarie ad aprire centri di terapia palliativa del dolore, di questi centri ne sono nati molto pochi, con un forte squilibrio territoriale: il Nord ha molti centri per le cure palliative, il Centro ne ha di meno, il Sud pochissimi. Questo della carenza di cure palliative è uno dei punti che dovremmo affrontare di più nei nostri convegni. Al di là del fatto che l’eutanasia e il suicidio assistito sono inaccettabili, credo che dovremmo organizzare la società in modo da rendere disponibili questo tipo cure sul territorio, finanche a domicilio, sostenute da tutti gli specialisti necessari: il medico, il terapista del dolore, il palliativista, lo psicologo, l’infermiere, il riabilitatore. Serve anche un’attenzione alle famiglie che non possono permettersi di lasciare il lavoro per dedicarsi a tempo pieno ai propri cari malati».
Qual è la sua posizione riguardo al referendum dei Radicali per la depenalizzazione dell’omicidio del consenziente?
«Di sicuro nel referendum ci sono elementi di incostituzionalità che vanno presi in considerazione. Depenalizzare l’aiuto al suicidio significa mortificare l’idea che la vita è un bene indisponibile. Bisognerebbe far luce sui veri contenuti di questo referendum tra la gente comune, non solo tra gli addetti ai lavori. A volte passa l’idea che se una persona è gravemente sofferente, la cosa migliore è compiere un “atto di pietà” e portare il paziente al suicidio o, comunque, alla morte. Il vero atto di pietà, al contrario, è quello di sostenerlo in tutte le maniere, accompagnandolo alla morte, senza alcuna forma di accanimento terapeutico».
Cosa pensa invece del ddl Bazoli sul suicidio assistito?
«La sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale va interpretata nel modo migliore. Altrimenti il discorso del suicidio assistito rischia di allargarsi a chi è caduto nella depressione, a chi soffre di anoressia o a chi diventa bipolare e, in un momento di lucidità, si rende conto di quanto stia diventando difficile la sua vita. Significherebbe creare una china pericolosissima. Sia davanti a un referendum che a una proposta di legge, la sostanza è che la vita va rispettata e deve rimanere indisponibile, mentre il paziente va assistito e curato».
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