La campagna #NOEUTANASIA, lanciata in questi giorni da Pro Vita & Famiglia ha il merito di porre l’accento su un aspetto poco dibattuto del fine vita: il paziente che rivendica il diritto di morire, in realtà, sta chiedendo aiuto, perché vuole vivere. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Silvana De Mari, medico, opinionista e scrittrice, che più volte ha sperimentato il fenomeno tra i suoi pazienti, optando sempre, con successo, per la sacralità della vita.
Dottoressa De Mari, qual è il suo parere sulla campagna #NOEUTANASIA?
«Mi sembra sia una campagna fatta molto bene. Peraltro, io, come medico, ho seguito molti pazienti terminali, alcuni dei quali mi dicevano: “Dottoressa, voglio farla finita… lei mi aiuta, vero?”. A tutti, io rispondevo: “Sì, non si preoccupi, ci penso io…”. In realtà, sapevo che, quando un paziente chiede di morire, tra le righe sta chiedendo: “Fate qualcosa di meglio per curarmi, fate qualcosa di più per consolarmi…”. L’istinto di sopravvivenza è sempre molto forte nel nostro cervello, quindi nessuno vuole mai morire veramente. In compenso, è molto facile cedere alla tentazione di abbandonare i pazienti ed è quello che succederà, una volta che sarà passata una legge di questo tipo. Inoltre, questi casi di richiesta di morte sono sempre casi estremi che vengono usati come “finestra di Overton”, da parte di persone che hanno dichiarato in maniera molto decisa la propria volontà di morire, come, ad esempio, DJ Fabo. Alla lunga, però, iniziano a chiedere l’eutanasia persone che, tutto sommato, non vogliono morire ma hanno paura di diventare un peso per i loro parenti. Tutto allora viene permesso, anche ai non consenzienti, come sta succedendo in Belgio e in Olanda, come è successo nei casi di Charlie Gard e Alfie Evans, in Gran Bretagna, per i quali mancava il consenso dei genitori. La questione sta dunque prendendo una china molto pericolosa. Noi abbiamo affidato la sanità allo stato e il risultato è che lo stato ha tutto da guadagnarci dalla nostra morte. Una persona anziana, un malato oncologico, sono pazienti “costosi”. A ciò si aggiunga, il drammatico tema dell’espianto di organi, oggetto dell’ultimo decreto del Ministro Grillo, che, in qualche modo, è correlato. Al fondo c’è anche l’incapacità dell’uomo di accettare la vita e la morte: accettare la morte nel momento in cui la morte arriva, senza anticiparla, ma senza nemmeno pretendere di prolungare la vita, quando ormai non c’è più niente da fare. Nel momento in cui la morte arriva, è sempre qualcosa di terribile per coloro che hanno amato chi muore ma, nel momento in cui viene anticipata, è ancora più drammatico».
Trova significativo l’accento che la campagna pone sul ruolo delle relazioni parentali (“potrebbe succedere a tua madre, ecc.”)?
«Sì, potrebbe succedere a chiunque dei nostri cari, che, in un momento di depressione, potrebbe chiedere di morire. Quando al pronto soccorso mi trovavo di fronte ad aspiranti suicidi, che essi fossero consenzienti o non consenzienti, mettevamo loro le sonde naso-gastriche, assieme a compresse di tranquillanti, suturavamo le ferite, ecc. Molto spesso le persone tentano il suicidio o esprimono il desiderio di morire ma poi la vita si rimette in quadro e cambiano idea. Inoltre, per suicidarsi, occorre un momento di sconforto talmente grave da spingerci a superare la paura del dolore necessario per morire. A parte alcuni mezzi “indolori” come il monossido di carbonio, per suicidarsi, bisogna soffrire. Il fatto che si possa farlo in modo così automatico, non sarà più necessario uno sconforto pari a 100, una sofferenza così forte da accettare il dolore della morte; sarà sufficiente uno sconforto pari a 10 o 15. Il fatto che non sarà più necessario il “coraggio” di suicidarsi da soli, è un’ulteriore aggravante. Ci si suiciderà per problemi che, in realtà, erano facilmente risolvibili».
La campagna di Pro Vita & Famiglia, infatti, ricorda che taluni chiedono l’eutanasia per ragioni relativamente “banali”, come depressione o anoressia…
«Arriveremo a ragioni sempre più banali, così come è successo per l’aborto: all’inizio si poteva abortire, per ragioni gravissime, ad esempio, un bambino senza gambe e senza braccia (eppure è ormai nota la storia di Nick Vujicic, nato senza i quattro arti, eppure sposato con due figli). Oggi, invece, siamo arrivati all’aborto per una supposta atresia all’esofago, quando poi la diagnosi era sbagliata e il bambino è stato abortito sano, al quarto mese ed è riuscito a vivere diverse ore prima di morire. Storia analoga per un bambino nato col labbro leporino, sopravvissuto diverse ore. Per fortuna non abbiamo la diagnosi prenatale per miopia e obesità, perché altrimenti, sarebbe un’ecatombe… Sia per l’eutanasia che per l’aborto, il concetto è lo stesso: il prodotto fallato si butta, anche se poi, spesso e volentieri, quel “prodotto fallato” funziona benissimo, come è stato il caso del già citato Nick Vujicic».
di Luca Marcolivio