Il Testo Unico sul Suicidio Assistito è arrivato alla Camera, dopo essere stato calendarizzato dalla Capigruppo, lo scorso 8 febbraio, anche se solamente in questi giorni si inizia a parlare di un possibile inizio delle votazioni, ma anche e soprattutto – notizia di ieri – il rinvio della discussione a marzo. Un dibattito che già inizia ad essere infuocato, non solo a livello politico e partitico. Abbiamo raccolto, infatti, la testimonianza di chi ha a che fare con i malati terminali per vocazione, quasi quotidianamente, come don Vincent Nagle, cappellano della Fondazione Maddalena Grassi, che è stato accanto anche a dj Fabo nel periodo in cui aveva manifestato il suo desiderio di ricorrere alla “dolce morte”.
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Don Vincent, Lei ha visitato Dj Fabo quando aveva già deciso di ricorrere all'eutanasia.
«Sì ho conosciuto dj Fabo otto mesi prima che morisse, tramite sua madre che mi invitò a conoscerlo. Poi fu lo stesso dj Fabo a manifestarmi la volontà di continuare i nostri dialoghi. Eppure quando tornai a casa sua, dopo la prima volta, realizzai subito che non sarei stato più invitato. Continuai tuttavia a cercare sua madre. Il giorno prima che partissi lei mi invitò per un nuovo confronto, ma notai che Fabio e i suoi familiari non facevano altro che ripetere pedissequamente le cose che venivano dette in tv, non c’era una conversazione vera e propria».
Lei ha parlato di "gabbia interiore" in cui lui era rinchiuso, cioè?
«Tutti noi viviamo la tentazione di vedere la realtà come nemica, perché ci minaccia e abbiamo la garanzia che essa, in un modo o in un altro, ci ucciderà e prima ancora di ucciderci ci farà perdere tanti tesori dal punto di vista emotivo e psicologico. Questa è una garanzia. Cioè la garanzia è che dobbiamo soffrire e morire. Ognuno di noi considera la realtà come un nemico, e nonostante Dio sia l’autore della realtà il nostro approccio è di paura, di angoscia, di risentimento, nonché di rimorso e di rimpianto. In particolare le persone che soffrono sono tentate di vivere in uno spazio emotivo molto piccolo per proteggersi, sapendo anche di non poter vincere. Ecco dunque che l’eutanasia può diventare, anche ai nostri occhi, il modo di riuscire a rispondere alla realtà minacciosa. L’eutanasia è un potere molto attraente».
Il Testo Unico sul Suicidio Assistito più che un tentativo di alleviare le sofferenze di chi è malato appare come un subdolo invito a farla finita. Dunque possiamo dire che rappresenta un condizionamento forte per chi è già in una condizione di vulnerabilità?
«I nomi di dj Fabo e di Welby sono molto conosciuti in Italia. Infatti queste storie sono state usate per trasmetterci angoscia, uno stato d’animo che ha lasciato in noi cicatrici permanenti. Nessuno di noi è capace di dimenticare questi nomi, quelli di DJ Fabo, Welby ed Englaro, non vanno via perché evocano angoscia e ciò è fatto apposta per trasmettere l’idea, alla nazione, che è necessario fare qualcosa per liberarci da questa prospettiva angosciante».
Pensiamo poi alla condizione delle persone disabili, degli anziani soli, dei più deboli, che si sentono di peso. Non si rischia una deriva eugenetica e una “cultura dello scarto”?
«Per me la questione si basa sul perché abbiamo paura di affrontare la nostra morte. Come mai sentiamo la sofferenza nostra e altrui come una minaccia? Se dovesse passare questa legge saremmo tutti gettati nella disperazione perché sarebbe come dire che nei nostri momenti di prova non ci sarà nessuno che possa indicarci una strada, una via fatta di luce. Al contrario bisognerebbe accettare la sfida di scoprire che anche in situazioni in cui ci si scontra con un drammatico limite si può aprire una prospettiva umana piena di amore. La sfida è questa e dipende tutto dalla “compagnia”».
Cosa intende per “compagnia”?
« Avendo a che fare con tanti casi di malati terminali, in tanti anni, posso dire che non è solo la compagnia fisica a fare la differenza. Sono necessari molti altri fattori. Innanzitutto che chi sta vicino non deve censurare niente: si è lì per vivere tutto con quella persona. Faccio un esempio: ci si avvicina ad un sofferente pretendendo di trasmettergli il suo buonumore ma se non si ha cura di condividere con lui le proprie sofferenze, è totalmente inutile. Si deve avere il coraggio di guardare l’abisso in cui il sofferente è immerso, insieme a lui. Ricordo che anni fa andavo a visitare in ospedale un pastore protestante e dopo una serie di visite sua figlia mi ha ringraziato e mi ha detto che suo padre non vedeva l’ora di vedermi, perché aveva notato che c’era qualcuno che lo ascoltava davvero, mentre gli altri, in tutti quei mesi, lo avevano esortato solamente a non piangere. Questo, però, richiede un lavoro innanzitutto su sé stessi. Un altro elemento fondamentale perché si possa parlare davvero di “compagnia” è trasmettere l’idea che ci sia qualcosa per cui valga davvero la pena vivere. Ma non può svelarlo chi assiste, bisogna scoprirlo insieme, sul campo».
C’è qualche episodio particolare che ha vissuto in tal senso?
«Ricordo che una delle prime persone che ho assistito in ospedale, poiché il suo corpo non rispondeva agli antidolorifici, aveva degli spasmi di dolore atroci, lanciava urla diaboliche che spaventavano tutti. Nessuno le si avvicinava, neanche il personale medico. Allora le sono stato accanto, all’inizio ho persino urlato con lei, alle sue parole di dolore aggiungevo le mie, in più pregavo nella mia mente perché Dio potesse sostenerla e consolarla. Dopo quasi un’ora ho avvertito una strana sensazione: era come se qualcuno fosse entrato nella stanza, in quel momento ho sentito la sua voce trasformarsi in una voce “umana”, molto più dolce e sembrava rispondere ad un altro che io non vedevo, sembrava rispondere ad un amore presente. E’ morta due ore dopo che sono andato a trovarla. E così ho assistito ad una trasformazione incredibile, al passaggio da una situazione umana dominata dall’orrore ad una condizione totalmente diversa: una scena dominata da un senso di speranza, di promessa».
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