L’eutanasia secondo alcuni è dovere dello Stato,
secondo altri è diritto dell’individuo:
in ogni caso ci rimettono i più deboli
«Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia». Albert Camus ha così interrogato il mondo contemporaneo, esortandolo ad abbandonare ogni prospettiva ideologica, cioè di carattere aprioristico, per adottare lo strumentario razionale tipico della filosofia, cioè la ragione, ai fini dell’investigazione del suddetto fondamentale problema.
Sull’argomento si possono delineare due principali correnti di pensiero: quella che affronta il problema dal punto di vista sociale e collettivo, e quella che lo legittima, invece, nella sua dimensione esclusivamente individuale e soggettiva.
Il risvolto delle esigenze sociali, come scaturigine dell’attivazione di quel complesso meccanismo medico-giuridico che conduce all’applicazione o alla disapplicazione di un determinato trattamento terapeutico che produce la morte del paziente, rimanda inevitabilmente a un passato storico in cui tale prospettiva era stata precisamente ponderata proprio per i suoi orizzonti di carattere prettamente sociale.
Nel 1895 Adolf Jost, in Das Recht auf den Tod (Il diritto alla morte), sostenne che il controllo sulla morte dell’individuo deve spettare in definitiva all’organismo sociale, cioè allo Stato. Questo concetto è in diretta opposizione alla tradizione angloamericana dell’eutanasia, la quale sottolinea il diritto dell’individuo a morire come rivendicazione umana suprema. Di contro Jost si riferisce al diritto dello Stato a uccidere, a muoversi insomma a ‘compassione’ per concedere la Gnadentod, la morte per grazia.
La prospettiva sociale vede nella morte del soggetto non solo un diritto dello Stato a poter procedere in tal senso, ma il dovere dello Stato a proceder in tal senso per tutelare la società alla base dello Stato stesso; su questa scia si sono espressi Karl Binding e Alfred Hoche nel loro Die Freigabe der Vernichtung lebenunswerten Lebens (La legittimità dell’annientamento delle vite indegne di essere vissute) nel 1920, andando a costituire quella piattaforma medico-giuridica che pochi anni più tardi ha legittimato i programmi di eutanasia, dei malati di mente per esempio, sotto il regime nazionalsocialista.
La seconda prospettiva, quella individuale, ritiene invece che il diritto di morire non sia altro che l’affermazione ultima e migliore dell’assoluta e incondizionata libertà del soggetto di poter disporre, in ossequio alla propria libertà, anche della propria vita senza intromissioni di carattere esterno, specialmente sulla scorta di valutazioni di ordine morale, giuridico, religioso o sociale.
Si potrebbe definire, dunque, la prima concezione sull’eutanasia come centrifuga, in quanto tende a estendere al più largo livello sociale il problema del diritto di morte, laddove la seconda potrebbe essere intesa come centripeta, poiché concentra solo ed esclusivamente sull’individuo, sul soggetto, la possibilità, la volontà e la libertà di determinare la propria morte. Nella prospettiva sociale l’eutanasia è vista come un dovere che la società ha verso se stessa: alleviare il proprio dolore alleviando il dolore, la sofferenza di colui che soffre in stato terminale, per esempio. Alleviare le sofferenze della famiglia, alleviare il carico di responsabilità dei medici. Oltre a ciò vi può essere, sconfinando così nelle aride lande dell’utilitarismo, una prospettiva anche economica: cioè, le risorse e le energie necessarie a tenere in vita un po’ più a lungo chi è comunque destinato alla morte, potrebbero essere riversate per chi ha invece qualche chance in più di sopravvivere secondo i parametri e le valutazioni mediche.
In quest’ottica, tuttavia, pur senza rendersene conto, il diritto viene plasmato e forgiato secondo le esigenze della società, tradendo una precisa e ben individuabile influenza della prospettiva sociologica per cui il diritto è lo strumento da utilizzare per il raggiungimento dell’unico scopo che gli è possibile raggiungere, cioè l’adeguamento dell’ordinamento al sentire sociale.
In questo caso, però, a venir meno è proprio l’essenza stessa del diritto che cessa di essere espressione dell’universalità della giustizia per divenire la formalizzazione di un mero dato storico-sociale. Si nega così implicitamente la verità stessa del diritto, che diviene un mero involucro formale privo di contenuto o, meglio, il contenuto del quale varia secondo l’imponderabile mutevolezza del sentire sociale.
La seconda dimensione con cui può essere inteso il fenomeno dell’eutanasia, è quella individualistica, cioè quella basata esclusivamente sulla volontà del singolo. In questa prospettiva il soggetto, così come il medico, è solo dinanzi alla morte, e alla sua decisione, alla sua sola volontà come unico metro di giudizio.
L’unico criterio è la volontà, la volontà di potenza, la volontà di dominio sul mondo a partire dalla propria vita, e, quindi, perfino della propria morte. Si pensi, per esempio, appunto, a quanto sentenziava lo Zarathustra del maestro europeo della volontà (nichilistica) del pensiero europeo, cioè Friedrich Nietzsche: «Io lodo qui la mia morte, la libera morte che mi viene perché io la voglio».
Anche in questo secondo caso la natura del diritto viene a essere stravolta. Il diritto, infatti, diventa una mera certi cazione della volontà individuale, una semplice copertura formale: il diritto viene letteralmente fagocitato dalla volontà soggettiva.
Divenendo lo strumento del desiderio e dell’assoluta, cioè priva di limiti, volontà individuale, il diritto, ferito nella sua essenza, smarrisce la sua stessa identità, come nota il filosofo del diritto Sergio Cotta: «Non è difficile capire che in tali casi il diritto è stato appunto usato come un mero strumento, facendo violenza alla sua essenza strutturale».
Il diritto, invece, è ben altro e, proprio perché ricomprendente anche, ma non solo, la volontà individuale –cioè considerandola, pur senza appiattirsi su di essa – svolge il prezioso e insostituibile ruolo di difesa dei più deboli, anche e soprattutto da quegli atti di volontà che in quanto tali trasgrediscano la retta ragione e le leggi di natura.
L’eutanasia, insomma, produce una doppia gravissima distorsione: burocratizza la morte, che da evento naturale diventa arti ciale, legittimato ora da esigenze sociali, ora da motivazioni individuali; proceduralizza il diritto, depauperizzandolo della propria essenza e distogliendolo dal suo scopo, cioè la difesa del più debole, facendolo assurgere a mero strumento del più forte.
L’eutanasia, dunque, sia nella prospettiva centrifuga, sia in quella centripeta, produce effetti collaterali non solo ai danni della vita, ma anche e soprattutto ai danni del Diritto, rendendolo privo di sostanza e semplicemente determinabile in base ad astratti formalismi proceduralistici, come nota in proposito il filosofo del diritto Francesco D’Agostino: «La soluzione è vista nell’assegnare al diritto il compito specifico di difendere un’etica convenzionale pubblica, che ssi in modo universalistico (cioè valido per tutti) le procedure pubblicamente concordate di gestione dei singoli problemi sociali».
Aldo Vitale
Fonte: articolo pubblicato sulla rivista Notizie ProVita di marzo 2016, pp. 22-23