L’eutanasia sembra qualcosa di lontano dall’ambito medico italiano, o comunque più vicino ad altre realtà europee e internazionali. Meno lontani, però, sembrano essere il suo radicamento e la sua attuazione.
Questo emerge da un caso avvenuto a Trieste, di cui ha dato notizia qualche giorno fa il sito del Timone, riprendendo a sua volta la cronaca riportata dal quotidiano Il Piccolo. La storia è quella di un signore di 84 anni, vittima di un’ischemia nel dicembre del 2018. Un dramma che, unitamente alle scarsissime prospettive di ripresa dell’uomo, ha spinto la figlia a chiedere l’eutanasia. Il padre, inoltre, sembra avesse dichiarato in precedenza di non voler vivere in condizioni simili e dunque la figlia, in qualità di amministratore, si sarebbe avvalsa della legge sulle Dat del 2017 che consente, oltre che al paziente, anche «all’amministratore di sostegno» di esprimere o rifiutare l’indicazione sulle cure «tenendo conto della volontà dell’assistito».
Nel primo ospedale a cui si è rivolta la figlia dell’uomo colpito da ischemia i medici hanno rifiutato di attuare le procedure di interruzione delle cure, cosa che ha fatto finire la vicenda in tribunale. In tale sede i giudici si sono espressi sostanzialmente a favore di entrambe le parti, cioè non hanno obbligato i medici dell’ospedale a praticare al paziente l’eutanasia omissiva, ma allo stesso tempo hanno consentito ai familiari dell’uomo di poterlo trasferire altrove per poter ricorrere a tale pratica. Alla fine, infatti, qualche mese dopo, in una casa di cura, l’uomo è stato sedato ed è morto dopo che gli sarebbero state sottratte l’alimentazione e l’idratazione.
Una vicenda, quella riportata dai due organi di stampa, che tiene acceso il dibattito sul fine vita e sulle Dat, ma soprattutto sulle azioni di una certa parte politica e sociale che continua a voler far radicare il presunto “diritto di morire” nella mentalità e nella prassi italiana.
Salvatore Tropea
Fonte: Il Timone